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 2013  novembre 01 Venerdì calendario

SEMPLICEMENTE ORIANA


Quando sentono pronunciare il nome di Oriana Fallaci, le persone reagiscono in modo molto diverso, e non solo perché è un personaggio che accende le passioni politiche e le simpatie o antipatie istintive. È anche una questione anagrafica. Se hanno più di 40 anni sanno benissimo di chi si sta parlando, se poi sono donne, la reazione è ancora più netta, perché Oriana Fallaci è stata per decenni un modello di liberazione femminile: conosco più di un’italiana che è stata chiamata Oriana dalla propria madre. Se invece hanno 20 anni possono non averla mai sentita nominare, o ricordare solo vagamente le polemiche sull’Islam che hanno caratterizzato gli ultimi anni della sua vita.
Io appartengo alla generazione cresciuta negli anni in cui Oriana Fallaci era una star globale. Quando sono nata, nel 1967, lei partiva per il Vietnam, unica donna giornalista italiana a farlo. Quando ho iniziato ad andare a scuola, lei inaugurava la stagione dei suoi best seller mondiali con Intervista con la storia e Lettera a un bambino mai nato . E quando compravo i miei primi libri lei faceva un clamoroso ritorno al giornalismo, dopo anni di silenzio, andando a litigare con Khomeini nella città santa di Qoms e cercando di entrare nell’ambasciata americana a Teheran invasa dai rivoltosi. Ricordo bene come decisi di fare la giornalista leggendo Intervista con la storia : quel modo nuovo di andare a incontrare il potere, di fare domande come se il microfono fosse una spada a difesa di tutti i lettori del mondo, mi entusiasmava e mi suggeriva la possibilità che il giornalismo fosse un’avventura, forse addirittura una missione.
Per questo motivo mi sono sentita onorata quando Edoardo Perazzi, suo nipote ed erede, mi ha chiesto di scriverne la biografia. Non ci conoscevamo, però lui aveva letto il mio libro Americane avventurose (Adelphi 2007) e pensava che così si sarebbe dovuta scrivere la vita di sua zia: come la storia di una grande pioniera del Novecento. Ho chiesto un po’ di tempo per riflettere, perché era un progetto enorme, ma sapevo fin dal primo momento che avrei accettato. Oriana Fallaci è l’unica italiana — con Sofia Loren, che fu sua grande amica — a essere famosa in tutto il mondo con il solo nome di battesimo. Ha attraversato il secolo, dal fascismo alla nascita alla liberazione della donna, dalla corsa per lo spazio alla guerra del Vietnam, e ha imposto un suo modo personalissimo di fare giornalismo e, poi, narrativa. Era giunto il momento di raccontarla con una biografia ufficiale, in vista del decennale della morte e alla vigilia di un periodo di riscoperta che passerà anche attraverso la televisione (dove la Rai manderà in onda nel 2014 una fiction su di lei) e il cinema (dove molti produttori si interessano ai suoi romanzi, primo fra tutti Un uomo , e un maestro come Andrzej Wajda ha scelto come cornice del suo film Walesa , presentato a Venezia, il gesto di una famosissima Oriana Fallaci che nel 1981 vola da New York a Danzica per intervistare il leader di Solidarnosc).
Non l’ho mai incontrata e forse questo è un bene, perché aveva fama di essere aggressiva e per niente simpatica. Inoltre penso che un biografo debba cercare sempre di osservare dall’esterno il personaggio su cui indaga: se l’ha conosciuto rischia di essere parte del quadro e perderne la prospettiva. Molti che le sono stati amici hanno scritto di lei, lunghi articoli oppure libri di memorie o di omaggio. Io avevo un compito diverso: esplorarla dall’esterno, come quando si arriva in un paese straniero — Oriana Fallaci, scrittore (come ha fatto scrivere sulla sua tomba), nata nel 1929, morta nel 2006 — e lo si visita passo dopo passo, domanda dopo domanda. Uno sguardo nuovo aiuta, in questi casi.
Nonostante questo, non è stata un’impresa facile. Nessun personaggio si apre facilmente a un biografo, e Oriana Fallaci meno di altri. Riservatissima sulla sua vita privata, aveva bloccato tutti i tentativi di girare dei film sulla sua storia. «Che li facciano quando sarò morta», ripeteva. Non aveva mai concesso neanche di realizzare film dai suoi romanzi, nonostante glielo chiedessero molti grandi del cinema, da Robert De Niro a Robert Redford, che conosceva bene perché era di casa a Hollywood fin dagli anni Cinquanta. Agli aspiranti biografi, poi, non permetteva neanche di avvicinarsi. A uno di loro, americano, che tutto sommato non trattò neanche troppo male, scrisse: «Io non ho mai autorizzato, né autorizzerei mai, una mia biografia personale. Te l’ho detto mille volte. I miei avvocati hanno sempre fermato coloro che volevano scrivere la mia biografia personale cioè la storia della mia vita e della mia famiglia».
Il mio punto di forza era l’appoggio dell’erede, che per la prima volta apriva l’archivio di Oriana, costituito dalle carte che erano in casa sua al momento della morte. Lettere, agende, appunti, poesie, fotografie, bozze di lavoro, una grande massa disordinata e confusa, che però costituiva un’ossatura affascinante da cui partire. Mi sono immersa in queste carte per tre anni, mentre due ricercatrici lavoravano a tempo pieno sul versante italiano e americano, setacciando sotto la mia guida archivi e fondazioni e intervistando le persone che l’avevano conosciuta, soprattutto negli anni della giovinezza, meno esplorata della maturità. Ho riordinato le carte di Oriana con un misto di timore e fascinazione, letto passaggi privatissimi con grande cautela, decidendo ogni volta cosa farne.
Un biografo sceglie di continuo. Osserva le tracce lasciate da una vita, come fossero le rovine di una grande città distrutta dal tempo, e segue tutte le piste, alcune feconde altre sterili. A volte si scoraggia. A me è capitato spesso in questi anni. Più avanzavo nelle ricerche più sentivo che questa donna, che si era messa in scena fin dai primi articoli, aveva in realtà raccontato sempre e soltanto alcuni aspetti di sé, nascondendo il resto dietro un muro di parole. Ho deciso che dovevo insistere sui punti in cui il quadro era meno lineare, quindi forse più vero, indagando le linee di frattura che emergevano sempre più numerose. Fragilità privata e aggressività professionale, vita nomade e attaccamento alle radici, infanzia povera e vita da star milionaria, successo e riservatezza: Oriana si rivelava una donna estremamente contraddittoria. E il titolo del libro si definiva. Avrei raccontato la donna, che sottintendeva e spiegava la giornalista e la scrittrice.
Anche nel momento della scrittura ho dovuto fare delle scelte. Ho deciso di scrivere una biografia che fosse rivolta non solo al pubblico italiano ma anche a quello internazionale, visto che Oriana è conosciuta in tutto il mondo (e infatti già prima della pubblicazione intorno alla biografia si è messa in moto la macchina per le traduzioni nelle principali lingue straniere). Ho scelto di partire dalla sua vita privata, perché è la parte meno nota di lei e perché è da qui che nasce tutta la sua opera, per gemmazione progressiva: ogni libro uno snodo della sua esistenza. Ho cercato di entrare nel suo laboratorio di scrittura, perché troppo spesso si sottolinea di lei il personaggio, con le sue bizze e il suo caratteraccio, e ci si dimentica di ricordare quanto fosse brava e disciplinata nel suo lavoro. Infine ho scelto di scrivere una biografia molto narrativa, che si potesse leggere come una grande storia femminile che attraversa il Novecento: il romanzo di una donna italiana che negli anni Quaranta decide di entrare nel mondo tutto maschile del giornalismo, negli anni Cinquanta capisce che il centro della comunicazione globale sono gli Usa e si trasferisce a New York, negli anni Sessanta insiste per andare a vedere il conflitto simbolo del suo tempo, in Vietnam, per conquistarsi il diritto di scrivere di politica a modo suo, e infine negli anni Settanta, diventata una star del giornalismo internazionale, scrive una serie di libri che saranno dei best seller mondiali.
Questo crescendo ha un brusco rallentamento negli ultimi quindici anni di vita. Dopo la prima diagnosi di tumore, nel 1992, Oriana teme che il tempo a sua disposizione sia finito, mentre lei vuole lavorare al grande romanzo familiare che sogna di scrivere fin da ragazzina ma ha sempre rimandato: progetto ambizioso fino alla follia, di ricostruzione infinita del passato, che cresce per anni come un cantiere infinito, simboleggiato da una grossa borsa di cuoio che contiene il manoscritto, da cui non si separava mai. È questo il filo conduttore dell’ultima stagione della sua vita, spezzato da quella brutale irruzione di realtà che è l’attentato dell’11 settembre, che porterà al «sermone», come lo chiamava lei stessa, scritto per il «Corriere» e intitolato La Rabbia e l’Orgoglio , e poi, in risposta all’immediata catena di reazioni e polemiche, a un’intera trilogia di libri.
Al romanzo tornerà appena possibile, angosciata dal poco tempo rimasto, rifiutandosi di mangiare e di vedere i pochi amici per paura di perdere tempo. In una lettera scritta nell’ultimo anno di vita dirà di sentirsi come il grande chimico francese Lavoisier che, condannato alla ghigliottina, chiedeva due o tre giorni in più per concludere una formula rimasta interrotta e, vistosi rifiutare la concessione, salì sul patibolo mormorando: «Che peccato...». È questo il vero testamento spirituale di Oriana: l’idea che si debba lavorare fino in fondo, con disciplina, con passione, facendo quello per cui ci si è sentiti giustificati sulla Terra.