Lorenzo Longhi, l’Unità 26/10/2013, 26 ottobre 2013
CAMPIONI E OPERAI BONIMBA FESTEGGIA I 70 ANNI ALLA BURGO DOVE SI LOTTA PER IL POSTO
DI LAVORO –
TENERE ACCESE LE LUCI SU UN DRAMMA DEL LAVORO, UNO DEI TANTI DI QUESTO TEMPO, PUÒ VALERE COME SPACCARE UNA DIFESA E SEGNARE UN GOL DECISIVO, CIÒ CHE HAI FATTO PER UNA VITA. Soprattutto se quella fabbrica dimenticata e ferma, occupata da febbraio dal presidio degli oltre 180 cassintegrati rimasti senza occupazione dopo lo stop della produzione, è un pezzo importante della tua vita, della tua famiglia, della tua città. La fabbrica in questione è la cartiera Burgo di Mantova, la "fabbrica sospesa" che domina l’orizzonte del Lago di Mezzo. Il bonaber, colui che segnerà la rete capace di riportare in agenda il problema, è Roberto Boninsegna. Il quale, il prossimo 5 novembre, sarà alla Burgo in un incontro promosso dal presidio dei lavoratori. «Auguri Bonimba: dagli Invincibili del Sant’Egidio alla Nazionale»: il pretesto sono i 70 anni di Boninsegna, figlio di una Mantova che fu e di un padre. Bruno, che alla Burgo era membro della Commissione interna.
«Spero che l’incontro serva per far parlare del problema della Burgo – argomenta Boninsegna – e vado a sostenere gli operai, perché una fabbrica che chiude è un disastro per centinaia di famiglie, un momento triste. E vado per ricordare mio padre, che in quella cartiera ha lavorato sino alla pensione. Era un sindacalista, e i sindacalisti erano visti male perché lottavano proprio come fanno oggi al presidio. In un certo senso, sembra di essere tornati indietro di 50 anni».
Roberto Boninsegna fu Bruno, alla Burgo nel nome del padre. Classe 1943 e leggenda del nostro calcio il figlio, 70 anni il prossimo 13 novembre, classe 1917 Bruno, che al lavoro andava in bicicletta sino a quando il figlio Bobo – perché a Mantova il suo soprannome è sempre stato quello – riuscì ad accompagnarlo con la prima auto acquistata dopo essere stato ingaggiato dall’Inter. «Ricordo mia madre che gli preparava la gamella per andare al lavoro, ricordo le sue battaglie e che, ai suoi tempi, in fabbrica si lavorava senza mascherina. Papà alla Burgo faceva il saldatore, si metteva un fazzoletto davanti alla bocca mentre lavorava. Quando tornava a casa, il fazzoletto non era più bianco: era verde. Sembrava il film con Pozzetto, lo ricorda?». Il film è La patata bollente di Steno, anno 1979. Il tema è l’ambiguità sessuale, con Edwige Fenech e Massimo Panieri che si contendono Renato Pozzetto. C’è anche la fabbrica: Pozzetto interpreta il Grandi, operaio chimico e attivista sindacale che, dopo avere soccorso un compagno in fabbrica, sale dal direttore sputando vernice e veleno contro un vetro: «Giallo canarino 417, impressionante vero? E qui ho un azzurro cobalto 313»). «C’era quello nei polmoni degli operai. Mio padre è morto a 61 anni: me lo hanno ucciso gas e polveri». Ecco perché Boninsegna, che pure dalla vita ha avuto fama e una condizione privilegiata grazie al calcio, mantiene una certa sensibilità nei confronti di argomenti che in genere, per chi ha vissuto di pallone, sembrano lontanissimi. «Tutte le vertenze e tutte le conquiste rischiano di andare perdute, un’ingiustizia per chi perde il lavoro».
A Mantova il caso della Burgo è esemplare: la cartiera ha spento gli impianti dopo 111 anni di attività, una riconversione mancata ha portato alla crisi, e da febbraio il presidio dei dipendenti prosegue ad oltranza. Ad aprile gli operai hanno impedito il trasloco dei macchinali di produzione, lo scorso agosto al presidio è arrivata Susanna Camusso a portare la propria solidarietà agli operai, ad intervalli regolari si parla di offerte di acquisto, spiragli che non si sono mai troppo aperti. E i cassintegrati, dal canto loro, ne hanno pensate di ogni tipo pur di non far spegnere i riflettori sul problema: dal cosiddetto “orto della speranza”, coltivazione biologica piantata a pochi metri dalla fabbrica, alla mostra di arte contemporanea allestita all’interno, passando per la raccolta firme per richiedere al Ministero dei Beni Culturali almeno il vincolo di tutela sulla fabbrica stessa. La quale, del resto, con la ristrutturazione studiata da Pier Luigi Nervi nel 1961, è stata a tutti gli effetti uno degli esempi più avveniristici dell’architettura industriale italiana, con i suoi cavalletti che, originariamente, sostenevano il tetto in modo da liberare dai pilastri rimpianto a carro mobile per la produzione della carta. Anche se negli anni la funzione si è modificata, il soprannome di “fabbrica sospesa” deriva da lì, e tale è rimasto.
Boninsegna, come tutti i mantovani, quella ristrutturazione la ricorda bene, «anche se io ormai giocavo in giro per l’Italia e mio padre era andato in pensione da nemmeno troppo tempo».
A quei tempi, Boninsegna ancora non era Bonimba. E sino a poco prima il calciatore era papà: «Esiste un libro di storie di operai della Burgo e, fra le tante fotografie che lo illustrano, ce n’è una della «quadra di calcio della cartiera. C’è anche mio padre: giocava difensore». Perché la Burgo era una fabbrica viva, in tutte le sue componenti, ed è facile capire perché Boninsegna, per gli operai della cartiera del Lago di Mezzo, fosse considerato quasi un figlio. Era il figlio di un compagno, ed era l’orgoglio di Mantova in giro per l’Italia. Un po’ come la loro fabbrica, anch’essa, era l’orgoglio industriale della città. E non è una sorpresa che, oggi, non ci sia testimonial migliore per il presidio della Burgo. Perché, di lì a qualche giorno, gli anni sarà Boninsegna a festeggiarli, ma il regalo sarà lui a farlo a quel presidio e alle sue istanze.