Stefania Miccolis, l’Unità 27/10/2013, 27 ottobre 2013
MESTIERI IN ESTINZIONE
A TRASTEVERE VIVE UN LIUTAIO PERSIANO, CHE DI MESTIERE NON SOLO COSTRUISCE E RESTAURA STRUMENTI MUSICALI MEDIOEVALI, MA È ANCHE PERCUSSIONISTA IN UN GRUPPO MUSICALE. La sua sensibilità artistica va ben oltre, e cita, per descrivere la sua condizione, Tempi moderni di Chaplin: «vado avanti con molta fatica, sono pieno di debiti, la mia situazione attuale mi ricorda il film di Charlot in cui lui balla e canta e fa ridere la gente, perché era quello che sapeva fare. Ed io cosa potrei fare oltre alla mia attività? Questa è la mia vita e cerco di resistere. Una volta il mio era un mestiere d’oro, ora non interessa più a nessuno».
La crisi penalizza (e purtroppo è comprensibile) le attività considerate superflue, e incide sui lavori dell’artigianato in maniera pesante, svuota di valore coloro che vogliono perseguire una passione, azzerando le loro personalità, costringendo alla rassegnazione e alla paralisi creativa. Ma è anche vero, e Chaplin lo mostrava già nei suoi Tempi moderni, che non tutti riescono a comprendere la società in cui si vive. La lotta che si combatte è contro la crisi economica, ma è anche la lotta per conservare tradizioni, eredità, ricordi familiari. Tante attività artigianali si ritrovano nelle viuzze della Roma antica. C’è per esempio in via Flaminia una piccola bottega che aggiusta bambole di porcellana e cartapesta. È rimasta come sessanta anni fa, tramandata dalla nonna al padre e al figlio: «Abbiamo fatto tutto da soli; è un’attività con la quale non si diventa ricchi e con le bambole solo non si può campare; aggiustiamo terracotta, alabastro, ma anche ceramiche, maioliche, gesso. I clienti sono sempre quelli, le famiglie nobili soprattutto, persino Re Umberto si è servito di noi dal Portogallo. Prima guadagnavamo di più; adesso non posso dire che ci sia meno lavoro, ma certo, si guadagna di meno». Vicino, in via del Clementino un orologiaio che restaura orologi a pendolo, orologi da tasca, da tavolo, le serpentine del 700, ma anche, ed è l’unico, carillons: «un lavoro d’élite, chi può permettersi di aggiustare carillons con i tempi che corrono? Per fortuna esiste la vecchia generazione e la nostra clientela sta abbastanza bene economicamente». Viene chiamato anche da altre parti d’Italia e dall’estero. «A Roma di restauratori di pendolo ce ne saranno tre o quattro e in Italia una decina. Questo è un lavoro che si fa per passione: spesso invece di guadagnarci ci rimettiamo, ma comunque lo facciamo». Il figlio si è appassionato accanto a lui per fortuna perché «non esistono più corsi per pendoli». Ancora più particolare un negozio vicino al Pantheon che ripara penne stilografiche, la ditta Stilo Fetti. Nata nel 1895, sono lì da cinque generazioni. La signora ottantenne mostra le dita sporche di inchiostro di stilografica, perché ancora le ripara lei manualmente, è una grande passione che ha trasmesso anche ai figli e ai nipoti. Ha imparato dal padre, «senza andare a scuola mi sono messa a banchetto, cioè a fare la riparazione delle penne». Lei si ricorda tanto di Pertini, ma si è fermato anche il Presidente Napolitano davanti al negozio. La crisi si subisce, con un calo enorme di vendite, ma per fortuna i clienti arrivano da tutte le città italiane.
Tante altre attività rischiano invece di essere fagocitate nel grande marasma dei centri commerciali. Alcune aprono saltuariamente, come l’intagliatore o l’intarsiatore o il doratore; o il cesellatore che spiega «il mio è il lavoro di Benvenuto Cellini, un lavoro che si fa a sbalzo: dalle lastre si tira fuori l’oggetto, che viene battuto all’incontrario per ridargli tutta la forma; viene pulito con gli scalpelli e rimesso a disegno e si creano tutte le sfumature: è come un disegno». Altre tengono aperto tutto il giorno senza demordere e con la speranza che qualcuno entri. Un impagliatore di via del Pellegrino dice: «cerco di mantenere le cose che si facevano una volta, perché il progresso nell’artigianato è guardare dietro, le cose più belle le hanno fatte anni fa». Ha continuato il lavoro del padre: «ho imparato ad amarlo negli anni e mi piace perché ogni giorno creo cose diverse. Il segreto delle botteghe è che quando non c’è lavoro, devi lavorare di più, per vendere quando la crisi sarà finita».
A Trastevere si trova ancora un tornitore di legno, lo conoscono tutti perché sta lì dal 1958, da quando il nonno venne dall’Abruzzo. Lui fa tutto a mano e si avvale di macchinari che hanno 170 anni e che «torniscono perfettamente». Vicino a Campo dei Fiori la bottega del fustarolo. È una parola che non esiste neanche sull’enciclopedia Treccani, ma nel mondo artigiano la conoscono: colui che fa i fusti, gli scheletri. In questo caso si tratta di armature per paralumi; ha cominciato a tredici anni «lavorando dal lattoniere, quando esistevano le lanterne». Un fustarolo per i tappezzieri lo si trova più in periferia e spiega come utilizza faggio e abete che poi verrà ricoperto con l’imbottitura. Ma ormai non si lavora più; neanche le figlie si servono da lui, comprano direttamente dalle fabbriche a due soldi. Ancora più lontano nei pressi dei Castelli è rimasto un bottaio: non tutti sanno che ora al posto delle botti in castagno o in rovere si usano contenitori di acciaio inossidabili a livelli industriali, perché sono più leggeri e pratici: «ormai è cambiato il sistema: con la nascita delle cantine sociali sono spariti i piccoli produttori e sono anni che non si fanno più botti artigianali». Hanno tutti molta paura che un giorno si parli di loro con il «c’era una volta»; è per questo che è importante dare loro attenzione.