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 2013  ottobre 26 Sabato calendario

LA MANUTENZIONE DELLA BELLEZZA


LA CONVERSAZIONE CON CLAUDIO STRINATI È SPIAZZANTE. Ha servito nei ranghi del ministero dei Beni culturali fino a pochi giorni fa, quando è andato in pensione. Come soprintendente statale a Roma, ai beni storico artistici e ai beni museali, ha ottenuto successi importanti. Due per tutti: la riapertura della Galleria Borghese, il trasloco del circolo ufficiali da palazzo Barberini. Lui stesso dice di sé: «In tanti anni di lavoro con diversi ministri è chiaro che si cerchino anche soluzioni di compromesso». Però, su tutela e valorizzazione, viene prima di tutto fuori l’amante della storia dell’arte e una visione utopica. Emergono idee spiazzanti, nutrite di una grandissima erudizione. E le impuntature con il potere politico pagate care.
Professore, cosa successe con la mostra «II potere e la grazia», nel 2009?
«Era una mostra importantissima per Berlusconi e per il cardinale Bertone, Una mostra che non direi brutta ma, insomma... decorativa. Io non volevo concedere un fondo che serviva per un altro progetto della Soprintendenza. Nacque l’attrito. A palazzo Venezia ho ospitato, prima di questa, tante mostre private, però ho sempre cercato di privilegiare lo Stato. Chiesi sostegno al segretario generale senza rendermi conto che lui era iperfavorevole a quella iniziativa».
Chi era il segretario generale?
«Roberto Cecchi, che è un amico e mi consigliò di non assumere quell’atteggiamento. Io non gli diedi retta e lui non si oppose alla mia rimozione. Non gliene voglio per questo, in qualche modo mi sono auto danneggiato. In quel momento il potere di Berlusconi era fortissimo e io, ero in carica da vent’anni. Era tempo, ma la cosa fu fatta in modo punitivo, in questo, mi sembra di aver subito un torto».
Recentemente ha sostenuto che il Mibac assomiglia al circolo Pickwich di Charles Dickens. Perché?
«Al ministero, come nel circolo Pickwick, talvolta, ci si da un gran da fare ma si perde di vista lo scopo. Si è creata una direzione generale per la valorizzazione per poi scoprire che non funziona, che non c’ò una strategia».
È contrario ai manager?
«Il manager opera in una banca o in una azienda ma un ministero è un ministero, è più facile orientare l’azione delle figure istituzionali in senso manageriale (con tutti gli strumenti e le collaborazioni necèssarie), che sostituire storici dell’arte, archeologi, architetti, bibliotecari, archivisti con una figura astratta di manager. Tanto è vero che non si è creata nessuna gestione. Oppure bisognerebbe dire che i beni culturali non sono tanto importanti. Ma tutti dicono il contrario».
Poiché non si può vendere il Colosseo...
«Lo sfruttamento manageriale del Colosseo è stato un errore culturale. Il Colosseo non è un museo ma un monumento nel contesto urbano, un organismo vivente nella città».
Ma la biglietteria...
«Una biglietteria strepitosa ma sono convinto che i beni culturali di Roma possano prosperare in altro modo. Ci sono tanti tipi di beni culturali, il Colosseo è un monumento, la storia ce lo ha consegnato aperto, non con le sbarre. Sarebbe un segno di civiltà altissimo se sindaco e governo lo rendessero totalmente disponibile, aperto e fruibile. Naturalmente vigilato nel modo più sofisticato ed efficace».
Niente file chilometriche, meno centurioni e ambulanti. Però c’è il contratto con Diego Della Valle…
Infatti, temo che sia un discorso utopico. Però l’immagine del Colosseo da cui Della Valle trae, per un periodo di tempo, il suo lecito guadagno, è legata al restauro».
Perché considera Raffaello Sanzio il primo soprintendente di Roma?
«Raffaello aveva un grande potere, avrebbe potuto chiedere al Papa qualsiasi cosa. Decise di mettere al servizio dello Stato pontificio le sue qualità artistiche e di conoscitore delle antichità. Ottenne un potere prefettizio, che andrebbe bene pure oggi, accrescendo l‘autorità dei beni culturali».
Le soprintendenze, soprattutto a Roma, hanno storicamente avuto molti conflitti con altri poteri. L’ex assessore Borgna ha ricordato recentemente l’episodio del divieto allo spettacolo di luci di Greenaway a piazza del Popolo.
«Ci sono poteri di veto basati su presupposti culturali che la storia ha rivisto. È meglio un potere prefettizio su una base culturale più ampia che un potere di veto su presupposti miopi. A Roma, come prevede la legge di Roma capitale, molti problemi potrebbero essere risolti con l’esercizio di un potere unitario di comune e Stato. Certo, accade che chi ha potere lo utilizzi per fare un dispetto ma gli errori degli uomini non devono essere confusi con la forza dell’istituzione. La Chiesa cattolica si regge da millenni su questa distinzione. Si dovrebbe osare, in un contesto realmente democratico. L’Amministrazione dello Stato, invece, ha sofferto di un indebolimento della democrazia interna e la crisi della democrazia ha prodotto un eccesso di personalismo».
Come si riuscì ad aprire la Galleria Borghese?
«Walter Veltroni, ministro e vicepremier, diede una spinta fortissima. Telefonava ogni momento per sapere a che punto eravamo e se era stato fatto questo o quello. Ma ci mise nelle migliori condizioni per lavorare, superando ostacoli economici e di impostazione. C’era stato un adagiarsi su soluzioni parziali, invece il ministro sosteneva che il primo museo del mondo, doveva essere anche il più funzionante del mondo. Ci fu un impegno scientifico non indifferente, per il restauro e per l’adeguamento. La villa del 600 era quanto di più lontano dalle regole attuali sulla sicurezza. Ne è risultato un vero modello di come si possa tutelare un monumento antico e valorizzarlo».
E come riuscì a far traslocare gli ufficiali da palazzo Barberini? «Con una soluzione gattopardesca che ha consentito di mantenere buoni rapporti con il ministero della Difesa. È la massima rovesciata di “cambiare tutto per non cambiare nulla”. Infatti nel complesso di palazzo Barberini, nel giardino, c’è una palazzina del XIX secolo, il villino Savorgnan di Brazzà, che ora ospita il circolo. I militari sono usciti ma non sono usciti dal palazzo».
Come possono convivere, a Roma, città antica e città contemporanea?
La città antica è ovunque, non può non essere vivente. E può essere vissuta, fare parte del quotidiano. È più difficile tutelare un monumento di un museo ma non è impossibile. La prima tutela è la crescita culturale del paese, attraverso la scuola e l’università. Nella città antica si possono fare le stesse cose che si fanno nella città moderna, ma ci vogliono soluzioni avvenieristiche, per esempio nella circolazione. E questo significherebbe lavoro qualificato, di ingegneri, archeologi, storici. Dovrebbero esistere addetti alla città antica in tutte le possibili funzioni, invece un lavoro di questo tipo non è nemmeno concepito. Ma i Beni culturali sono una risorsa solo se ci si lavora».
C’è un sapore utopico in quello che dice.
«Tesi fantasiose che hanno un qualche fondamento nell’esperienza».
Con l‘iniziativa del sindaco Marino è tornata al centro la questione dei Fori.
«Villa Rivaldi, che guarda sui Fori, è un edificio meraviglioso in uno stato di abbandono che fa vergogna. C’è persino il rischio che vi venga istallato il cantiere della Metro C. Sarebbe il luogo ideale di un museo della città, che c’è in tutte le capitali europee mentre a Roma manca. Un altro edificio in abbandono è l’Angelo Mai».
Anni fa fu sgomberato il centro sociale per restituire l’edificio alla cittadinanza, che aveva raccolto le firme per portarci la scuola.
«L’Angelo Mai è una meraviglia architettonica e urbanistica ora totalmente abbandonata. All’esterno ci sono cartelli di inizio e fine lavori disattesi. Lasciare in abbandono un complesso di quel pregio è molto grave, anche dal punto di vista dell’eticità».