Enzo Biagi, Il Fatto Quotidiano 31/10/2013, 31 ottobre 2013
MASTROIANNI “IL RUOLO CHE VORREI? TARZAN VECCHIO E IN PENSIONE”
Marcello, alla nostra età è giunto il momento dei bilanci. Cosa vedi dietro di te?
Io vedo un lungo film. Che è cominciato nel ’49. Di questo lungo film ho dei momenti più cari. È inevitabile, devo citare il nostro amico Fellini o Visconti o altri, ma in realtà poi è un film che ancora non è terminato. Quello che vedo più vivo alle mie spalle sono i ricordi della prima giovinezza, le condizioni molto precarie in casa. Le discussioni su come pagare la bolletta della luce. La guerra, la guerra nella sua brutalità. Quando si hanno diciassette, diciotto anni è anche una grande avventura...
Ha fascino?
In un certo senso sì. Nel film di Ettore Scola Che ora è, c’è un punto in cui io raccontavo a Massimo Troisi la storia dei bombardamenti; si andava un po’ a soggetto, e io dicevo: “Sai si faceva a chi arrivava primo al rifugio”. Questa era la forza della gioventù. E allora questi ricordi sono quelli che hanno segnato di più la mia vita: molto di più del cinematografo, del successo, della popolarità, dei soldi. Quando mi guardo indietro penso alla scuola, anche ai balilla, ai campeggi, a mia madre, a mio padre, a mio fratello e alla guerra.
Marcello come è iniziata la tua carriera d’attore?
Ho cominciato all’università con Giulietta Masina, venne a vedere lo spettacolo Emilio Amendola, che era l’amministratore della Compagnia Visconti, zio del famoso doppiatore Ferruccio. Cercavano un attore giovane. Mi disse: “Tu vuoi fare il teatro, vero?”. “Io studio: ma certo, perché no?”. Mi organizzò un appuntamento con Luchino Visconti, ci incontrammo in una sala da tè in Piazza di Spagna. Con Visconti c’era anche il suo assistente Zeffirelli. Visconti fu estremamente chiaro: “Il signor Amendola mi dice che hai delle qualità: vedremo. Se sarai bravo, avrai il ruolo, se no farai la comparsa”. Andò tutto bene. Il dramma era Un tram che si chiama desiderio, il protagonista era Vittorio Gassman, io interpretavo Mitch, l’innamorato di Blanche, che era Rina Morelli.
Co m ’era lavorare con Visconti?
Mi costò una fatica bestiale, soprattutto quando, sempre con Gassman facemmo Oreste di Vittorio Alfieri, non riuscivo a pronunciare i versi nel tono giusto, Vittorio mi diede una mano. Visconti durante una prova mi aggredì: “Ma vai a fare il tranviere. Sembri un gorilla”. E io volevo ribadire: “Ma non sono stato io a cercarvi, mi avete cercato voi”. La Morelli, che aveva molta simpatia per me, dalle quinte mi faceva segni come per dire: “Stringi i denti, non reagire: passerà”.
Chi era Visconti? E che differenza c’era con Fellini?
Visconti era il professore. Un uomo affascinante, che trasmetteva sicurezza. Grande maestro di recitazione, amava i suoi attori anche quando li insolentiva, però gli passava subito e ci voleva sempre con lui. Fellini, invece, era il compagno di banco. A Federico potevo raccontargli tutto. Anche i peccati: perché lui sapeva sempre capire e dare il consiglio giusto. E poi ridere di tutto. Il regista più facile del mondo. Bastava osservarlo, capire un po’ la sua natura. Per me lavorare con lui era come inzuppare il pane nel caffellatte. Tra me e Fellini c’era un’intesa perfetta e sul set questo creava un’atmosfera che coinvolgeva tutti.
Che affinità c’erano tra te e Federico?
Credo nessuna. Questa idea dell’alter ego è imbarazzante, ridicola. Non vuol dir niente. Fellini chiamava me perché con me si trovava bene e perché io non gli chiedevo niente. Non mi presentavo come un professionista, ma come uno preso dalla vita, dalla strada, e questo per Federico era molto confortevole. Come affinità c’era una certa fantasia, forse un po’ adolescenziale. Lui scrisse in un libro che l’amicizia con me era formidabile, perché fatta di disistima totale, aveva ragione, questo non ci obbligava a dei convenevoli. Eravamo liberi di volerci bene.
Marcello cosa pensi della televisione?
Mi disgusta. È troppo volgare, ho letto di cifre esagerate, poi ci sono presentatori che urlano, che sudano. No, caro Enzo, questa televisione non fa per me. Ai miei tempi la televisione era più delicata. Ti racconto un episodio. Presi parte a una di quelle trasmissioni dove si raccontavano tre stupidaggini e c’era un balletto con le sorelle Kessler, ispirato alle commedie musicali di Broadway. Così dopo aver fatto qualche prova con lo smoking, la cosa mi piacque talmente tanto che corsi subito al Teatro Sistina da Garinei e Giovannini. Dissi: “Sentite io sono così eccitato che se volete fare uno spettacolo firmo subito”. Così fu che mi impegnai a far rivivere in teatro Rodolfo Valentino.
“Ciao Rudy”, ricordo che eri contornato da tante attrici.
Ero l’unico attore maschio, perché Valentino era raccontato dalle sue donne, tra le attrici c’erano: Ilaria Occhini, la prima moglie del divo, Olga Villi, Natascia Rambova, Paola Pitagora, Raffaella Carrà, giovanissima, graziosa, vivace, sfoggiava un anello con topazio che le aveva regalato Frank Sinatra, con il quale aveva girato un film. Stetti molto bene. Le attrici, poi, mi fecero omaggio di una campana, uguale a quelle delle barche, l’attaccarono alla porta del camerino dicendomi: “Quando hai bisogno, suona”. Io alle volte lo facevo per dispetto: correvano tutte.
Ci sono state molte donne nella tua vita: cosa hai dato e cosa hai ricevuto?
Mi hanno dato amore, forse io ne ho dato meno, riflettendo seriamente e onestamente. Ma questo, forse, è anche dovuto alla nostra natura: l’attore vuole essere sempre al centro dell’interesse; è come l’enfant gaté, come dicono i francesi, un bambino viziato. E, secondo me, è meno capace di offrire amore perché è già tanto amato, è amato da tutti. Quindi quelle donne che hanno fatto parte della mia vita, forse, hanno offerto più di quanto io non abbia dato in cambio, almeno un paio di volte. Eh sì, perché dare, dare, ma fino a un certo punto.
Sul set hai avuto tra le braccia un campionario di femminilità: dalla conturbante Jean Moreau all’atletica Ursula Andress; dalla misteriosa Claudia Cardinale alla esplicita Anita Ekberg; dalla raffinata Lucia Bosè alla commediante Monica Vitti e Catherine Deneuve. Per non parlare delle americane: Julie Andrews, Shirley MacLaine, Faye Dunaway.
La donna con cui ho avuto la storia più lunga è Sophia Loren; dura dal 1954 e non è ancora conclusa. Mi piace il fatto che Sophia non sia solo una brava attrice, ma una persona vera. Me ne rendo conto quando mi accoppiano d’ufficio con attrici somare, aspetto la fine del film come una liberazione. Con lei ho fatto dodici film: da Peccato che sia una canaglia di Blasetti a Prêt-à-porter di Altman, dove Sophia ha riproposto lo spogliarello di Ieri, oggi e domani, il fascino è un dono di natura, anzi un mistero che non sfiorisce con gli anni. Catherine è la madre di Chiara. Sulle attrici che hai nominato e su altre, sulle loro attrattive con Federico facevamo giochetti di parole, false massime, proverbi inventati, una gara a chi ne inventava di più. “Federì: donna senza culo è un alpino senza mulo”. E lui: “È vero, bravo: Culo tondo son giocondo”. Mia replica: “Culo liscio, busso di striscio”. “D’accordo: culo piatto, fossi matto”. “Complimenti: Culo secco, non ti becco”. Andavamo avanti per ore…
Ho letto in un giornale una specie di confessione: pare che la persona che ha più contato sia Faye Dunaway. Perché?
Ma no, un bell’amore, e basta. Ogni momento può essere esaltante.
Quando le storie finiscono ci patisci?
È sempre molto doloroso, anche quando sei tu a venirne fuori. Qualcosa va a brandelli. C’è un vuoto.
Nelle interviste non parli mai di politica, c’è un politico che ti piace?
Mi piaceva Berlinguer. Quando lo vedevo in fotografia o alla televisione, mi sembrava un mite, con quel volto triste. Piaceva molto anche a Fellini, e quando morì andai a montare la guardia d’onore. Era un gesto di stima nei confronti di una persona che mi sembrava per bene.
Lo dicono i sondaggi, e credo che sia vero: sei l’attore più amato dagli italiani. Ti consola?
Mi fa piacere. Sarebbe sciocco negarlo. Certo che mi fa piacere, semmai mi domando perché?
Che cosa ti manca Marcello?
Non mi manca niente. Io ho sempre amato lavorare tanto. Vuol dire che non mi sono mai fermato, e questo è dovuto, anche forse, a una poca ricchezza spirituale, ad esempio: io non amo andare al cinema, non amo andare a teatro, i concerti, i musei non ne parliamo. La lettura? Sono un mediocre lettore, medio. E allora come riempire gli spazi? Con il lavoro e poi questo mestiere è bellissimo.
Agli uomini della nostra età si chiede: hai dei rimpianti?
Ma sì, certo, chi non li ha. Guardando indietro uno si rende conto che avrebbe potuto fare meglio, di più, forse essere più generoso, più onesto no, io sono stato abbastanza onesto, più utile agli altri sì.
C’è una parte, un personaggio che ti manca, nella scena e nella vita?
Mi piacerebbe fare un vecchio Tarzan. Tutti mi prenderanno in giro: ma come un vecchio Tarzan? Sì, perché io non sono mai stato quell’uomo giovane robusto. Mi piacerebbe da vecchio darla a bere, da vecchio non si può pretendere che uno abbia i muscoli. Ma il problema non è quello. Tarzan è un eroe che non conta più nulla. Nessuno lo rimpiange più e potrebbe essere un film umoristico ma anche, a una lettura un po’ più profonda, la condizione della terza età, della solitudine di un uomo che è stato un eroe, ma che neanche più il coccodrillo ha bisogno di lui.
Che cosa vuol dire per te recitare?
Vuol dire proprio divertirmi, essere ancora bambino ai giardinetti, giocare a guardia e ladri. Difatti i francesi, non vorrei apparire uno snob, dicono jouer, non recitare, perché recitare è già fingere. Loro dicono giocare. Non è molto più bello?