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 2013  ottobre 31 Giovedì calendario

È LA CINA LA PAURA DELL’OCCIDENTE


Le recenti polemiche sulle scorrerie elettroniche dell’agenzia di spionaggio americana Nsa hanno spinto il dibattito mediatico e politico a focalizzarsi sugli Stati Uniti. Ma secondo molti addetti ai lavori consultati in questi giorni da Il Sole 24 Ore si sta concentrando l’attenzione sulla pagliuzza e si sta ignorando la trave. A nessuno piace essere intercettato. E non c’è dubbio che gli Stati Uniti intercettino molto, probabilmente quasi tutto quello che capita loro a tiro. Ma chiunque abbia come mission la sicurezza tecnologico-industriale nazionale sa che il rischio più grande non viene da Washington. Bensì da Pechino.
«La partita strategica è quella con i cinesi», ci dice una persona che in Italia ha quella mission. «Ma a pensarlo non siamo solo noi. Lo pensano gli americani, i britannici, i tedeschi, gli indiani e probabilmente anche i russi». E se in questi Paesi si chiede agli addetti ai lavori qual è la maggior "criticità" cinese, nessuno risponde citando l’Mss, il Ministero per la Sicurezza dello Stato, e cioè il servizio di intelligence esterno di Pechino. No, citano tutti lo stesso nome: Huawei, il colosso delle telecomunicazioni formalmente privato (il 98,6% delle azioni sono possedute dai dipendenti). Il motivo è semplice: a differenza dell’Mss, Huawei non è classificabile come un agente nemico. O anche solo come un avversario. Huawei è piuttosto un rischio e un’opportunità. Allo stesso tempo. Ed è proprio questa doppia natura a rendere la "sfida Huawei" estremamente difficile. Che l’azienda costituisca un rischio, seppur fermamente negato dal colosso cinese, negli ambienti governativi del mondo occidentale viene dato quasi per scontato. Tant’è vero che martedì scorso il nuovo governo conservatore australiano ha confermato la decisione presa dalla precedente amministrazione di escludere Huawei dalla gara per la nuova rete nazionale a banda super-larga.
In un rapporto dell’ottobre scorso, la Commissione Intelligence del Senato Usa ha spiegato che Ren Zhengfei - fondatore e amministratore delegato di Huawei - è un ex ingegnere elettronico dell’Esercito popolare cinese molto vicino al partito e che, con una politica di prezzi molto aggressiva, Huawei sta saturando il settore delle telecomunicazioni con switch e router, piazzando insomma suo hardware nei gangli vitali delle reti di tutto il mondo. Il rischio è che quell’hardware possa un giorno fungere da "porta di servizio" per l’intelligence cinese. Dopo aver concluso che «gli apparati Huawei… potrebbero pregiudicare gli interessi della sicurezza degli Usa», la Commissione ha avanzato due raccomandazioni. La prima: «Bloccare acquisizioni o fusioni che coinvolgono Huawei». La seconda: «Le aziende delle telecomunicazioni... devono essere fortemente incoraggiate a cercare fornitori alternativi». Più elastico - c’è chi lo definisce "mercantilistico" - l’approccio britannico. Lì il rischio Huawei è stato segnalato già nel 2009, quando l’ente responsabile per la direzione delle organizzazioni di intelligence inglesi sollevò per la prima volta dubbi sulla sicurezza delle apparecchiature Huawei. Poiché la conclusione degli esperti fu che non vi erano valide alternative autoctone alla tecnologia e soprattutto ai prezzi di Huawei, la risposta, molto pragmatica, è stata quella di invitare il colosso cinese a finanziare un centro di ricerca, battezzato the Cell e supervisionato dall’equivalente britannico della Nsa, il Gchq, con il compito di verificare le "vulnerabilità" della nuova tecnologia Huawei prima della sua immissione nel mercato nazionale. In America molti pensano che così facendo gli inglesi abbiano dato alla volpe le chiavi del pollaio. Nel giugno scorso, questo stesso sospetto ha spinto l’Intelligence and Security Committee britannico a suonare l’allarme: «Ci preoccupa il fatto che un ente finanziato e coordinato da Huawei fornisca garanzie sulla sicurezza dei prodotti Huawei. Finché non abbiamo chiesto chiarimenti, presupponevamo che Huawei si limitasse a finanziare the Cell, e non che lo gestisse, come invece è», si legge in un suo rapporto in cui si suggerisce al Governo di assicurarsi che «perlomeno si affidi al Gchq il compito di supervisionare il suo lavoro».
E in Italia? Il primo a esprimere preoccupazioni è stato il senatore del Pdl Giuseppe Esposito, vicepresidente del Copasir, il comitato parlamentare sulla sicurezza. In un’interrogazione parlamentare del 24 luglio 2012 ha scritto: «Premesso che l’azienda cinese Huawei ha stretto una partnership con Tim, attuale fornitore di telefonia mobile all’amministrazione civile e militare italiana; che… il fondatore e attuale amministratore dell’azienda Huawei, Ren Zhengfei, è stato ufficiale dell’esercito di liberazione popolare cinese e con esso sembra mantenere ancora stretti legami; che...il Governo indiano ha dapprima impedito l’acquisto di apparecchiature Huawei...e successivamente concesso la vendita a patto che i prodotti venissero certificati da enti americani...si chiede di sapere quali sono state le misure adottate per verificare l’integrità, l’affidabilità e la riservatezza degli equipaggiamenti forniti a Tim da Huawei e se siano state rispettate tutte le procedure atte a garantire la sicurezza di Tim e del sistema nazionale di comunicazione».
Il Sole 24 Ore ha ripetutamente cercato di sapere dal senatore Esposito se il Governo lo abbia tranquillizzato sul tema, ma non ha mai avuto risposta dal suo ufficio. Un fatto è comunque certo: negli ultimi anni la marcia di Huawei in Italia non è stata affatto lunga. L’azienda cinese ha infatti stretto alleanze strategiche con i principali operatori nazionali. A partire dal gruppo Telecom Italia, per il quale nel 2008 si è addirittura occupata del potenziamento della rete sottomarina a fibre ottiche MedNautilus (parte di quei "nodi siciliani" di interesse degli anglo-americani. Vedi articolo de Il Sole 24 Ore del 25 ottobre).
Nel giugno del 2011 Telecom Italia e Huawei hanno siglato un accordo di cooperazione pluriennale il cui valore è stato stimato tra 1 e 3 miliardi di dollari. Da un miliardo è stato invece l’accordo firmato nell’aprile scorso con Wind e Sirti per la realizzazione della rete di telefonia mobile di quarta generazione. A Huawei sono state inoltre aperte le porte del Garr, il consorzio che gestisce la rete delle università e della ricerca italiana. Garr utilizza Huawei per l’hardware trasmissivo della rete Garr-X e di quella di prossima generazione Garr-X Progress. «La scelta è stata determinata dall’esito di una gara pubblica a livello europeo», ci ha spiegato il responsabile della comunicazione Carlo Volpe. Che ha aggiunto: «Il problema della sicurezza è importante per Garr indipendentemente dal tipo di macchine utilizzate. La soluzione adottata è quella di avere l’esclusivo controllo di tutta l’infrastruttura». Su Huawei, Volpe ci ha detto che «nel 2012 erano usciti articoli che segnalavano il rischio dell’utilizzo di apparati cinesi, ma poi si sono rivelati completamente infondati e smentiti». Un’asserzione decisamente azzardata, visto quello che si sostiene tuttora sul tema in molti Paesi del mondo.
Tutto questo comunque non significa che in Italia non ci sia chi condivide le preoccupazioni espresse nell’interrogazione parlamentare del vicepresidente del Copasir. Al contrario, a Il Sole 24 Ore risulta che da qualche mese, soprattutto dopo il decreto sulla sicurezza cibernetica (vedi box), sia in corso un "vivace" dibattito. Anche perché dai servizi sono arrivati moniti precisi legati sia alla politica commerciale estremamente aggressiva di Huawei sia agli appoggi finanziari forniti dalle maggiori banche cinesi. Parliamo di Bank of China e Industrial & Commercial Bank of China, due istituti di proprietà del governo di Pechino. «Il confronto ormai non è più geo-politico-militare. Oggi è soprattutto geo-economico. Ma l’aggressività - e a volte anche l’aggressione - che incontriamo oggi è forse addirittura maggiore di quella dei tempi del Muro di Berlino. La partita strategica non è militare, è economica. Ma può essere altettanto violenta», ci dice una persona che si occupa di sicurezza nazionale. In molti sensi era ben più semplice prima. Quando c’erano amici e nemici. Oggi sono tutti concorrenti. Alcuni più amichevoli e/o leali. Altri meno. Ed è molto più difficile decidere come muoversi.
Huawei, come del resto la Cina stessa, è un interlocutore, e un potenziale partner commerciale, non un nemico. Certamente Huawei non si ritiene tale. «In Italia siamo ormai un’azienda radicata. Da anni forniamo reti a tutti gli operatori di telecomunicazioni, e alla pubblica amministrazione, inclusi vari ministeri. E non si è mai verificato alcun problema», ci dice Roberto Loiola, vicepresidente per l’Europa occidentale di Huawei, che aggiunge: «Siamo l’unica azienda del settore che ha fatto test ed è stata sottoposta a una montagna di verifiche. E in tanti anni e decine di migliaia di test non è mai stato trovato nulla di concreto. Insomma abbiamo dimostrato che non ci sono elementi di sostanza» alle perplessità manifestate da alcuni. Allo scopo di superare queste perplessità Huawei investe molto in campagne di promozione di immagine e costruzione di relazioni. In Australia sponsorizza la squadra di rugby della capitale, i Canberra Raiders (ma è evidentemente non bastato). In Inghilterra ha puntato su una strategia più mirata, assumendo come "direttore della cibersicurezza" John Suffolk, l’ex Chief information officer del governo di David Cameron. Nel nostro Paese ha invece nominato presidente onorario Giancarlo Elia Valori, uno dei personaggi meglio introdotti d’Italia, ex presidente di Autostrade per l’Italia, dell’Unione Industriali di Roma e di Sviluppo Lazio. Nonostante i campanelli d’allarme, nessuno vuole chiudere le porte in faccia a Huawei. Ma c’è chi suggerisce di tenerle aperte con maggior cautela. E magari anche con qualche criterio. Per coniugare meglio il rischio con l’opportunità. «Con tutti i vecchi Paesi d’oltrecortina eravamo riusciti a trovare un modo di convivere commercialmente. Ma nella consapevolezza del pericolo dell’appropriazione tecnologica», conclude la nostra fonte.
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