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 2013  ottobre 31 Giovedì calendario

GIRO D’ITALIA CON GRANDI AUTORI


«Una mattina di maggio, alle elementari, la maestra spiegava gli affluenti del Po e cullato da tutta quell’acqua io mi stavo addormentando. Poi però è entrato in classe lo zio Aldo, con un colpo fortissimo che quasi buttava giù la porta. Senza bussare, senza salutare, è venuto al mio banco, mi ha preso per un braccio e tirato via: “Dai veloce che andiamo a vedere il Giro”. La maestra, mezza nascosta dietro la cattedra, ha provato a dirgli: “Scusi, ma fra poco li porto io i ragazzi a vedere il Giro”. E lo zio: “Con tutto il rispetto signora, ma sa una sega lei dov’è il punto buono”».
Il punto buono, per uno scrittore, è il punto di vista e sul ciclismo (ma non solo) il punto di vista di Fabio Genovesi è assolutamente invidiabile: per passione, competenza, scrittura. Per trovarne uno simile bisogna tornare alle grandi firme del passato che si sono occupate del Giro. O forse soltanto al suo strepitoso secondo romanzo Esche vive (Mondadori) dove si parla di fossi, canali, carpe, tinche, lucci ma soprattutto di un campioncino che corre per l’Unione ciclistica muglianese, di Fiorenzo Magni, dell’etica e dell’estetica del correre in bici.
Genovesi ha raccolto ora in volume le cronache dal Giro d’Italia scritte per il «Corriere della sera»: Tutti primi sul traguardo del mio cuore (Mondadori).
Se durante la corsa, leggere nelle pagine dello sport la coppia Paolo Tomaselli - Fabio Genovesi rappresentava un piacere sottile (per chi segue la corsa davanti alla tv era come sollevare un velo, entrare dentro il televisore), adesso, alle prese con il libro (in parte riscritto), si provano altre sensazioni: quel piacere della narrazione che si insinua nella realtà come una goccia di pozione magica, e la trasforma dall’interno in un’avventura irripetibile, senza che ci sia troppo bisogno di ricorrere a effetti speciali.
Con un tocco alla Campanile («Battista al Giro d’Italia»), Genovesi trasforma subito il suo autista, il savonese Enzo, in un personaggio, in una sorta di spalla comica, di complice, di Virgilio. E l’avventura ha inizio. A proposito di Campanile, c’è un capitolo che si chiama «Intermezzo poetico» e racconta la visita notturna al poeta calabrese Mimmo Minnini, «una specie di Giosuè Carducci, però più abbronzato e senza gli occhi storti». È la sera in cui l’inviato, tra patate arrosto e amari artigianali, trova ancora un grado di lucidità per trasfigurare, sano e salvo, il ridicolo quotidiano in ridicolo universale. Ogni tappa diventa così un semplice pretesto per improvvisare divagazioni satiriche, osservazioni di costume, note a margine che non pretendono quasi mai di fornire un giudizio o un’analisi vagamente sociologica.
C’è stato un tempo pre-televisivo in cui i giornali affidavano a scrittori la narrazione del Giro. Erano considerati intrusi, sprovveduti che si soffermavano sui particolari (apparentemente) banali e marginali della grande corsa: il pubblico, le emozioni, l’ambiente. Erano quelli che dovevano dare «colore» alle cronache. Tra i più citati, Achille Campanile, Anna Maria Ortese, Dino Buzzati, Vasco Pratolini, Curzio Malaparte, Alfonso Gatto (il titolo del libro è una sua frase; non sapeva andare in bicicletta ma aveva capito cos’era il ciclismo), Goffredo Parise, Cesare Zavattini. Pier Paolo Pasolini diceva che «il ciclismo è lo sport più popolare perché non si paga il biglietto».
Allora, tra gli scrittori e i corridori, che a volte condividevano gli stessi alberghi, c’era una grande distanza culturale (basta rivedere alcune puntate del «Processo alla tappa» di Sergio Zavoli). Il letterato si sentiva investito dalla missione di «cantare l’epica del ciclismo», con grande spreco di aggettivazione, di surrogati dell’epica classica, in una prosa carica di pathos lirico o drammatico. Nel gennaio del 1960 Manlio Cancogni, che seguiva come inviato il Giro d’Italia, descrive così l’apparizione di Coppi in una lontana tappa: «Vedendo avanzare quella sagoma potente avevo provato una sensazione di vuoto allo stomaco, e come se una mano estranea avesse sospeso le mie facoltà vitali».
Genovesi sa bene, e ce lo dimostra in ogni pagina, che la corsa a tappe ricalca due principi classici della narrazione: il viaggio (come non pensare all’iniziazione del Grand Tour) e la suspence (chi vincerà? e in che modo?), ma sa altrettanto bene che oggi bisogna misurarsi con la televisione. Lo scrittore non può più reinventare la corsa o immaginarsi il campione, come faceva un tempo, ma deve attenersi alla marginalità, trasformare ogni colpo di pedale in digressioni, scatti della fantasia, strade della memoria, fughe del pensiero. Con una scrittura leggera, piena d’amore, di curiosità, di passione.
Nelle pagine di Tutti primi sul traguardo del mio cuore , appare e scompare, sempre sotto nuove apparenze, il «punto buono» dello zio Aldo: una certa ruvidezza (il ciclismo è fatica) mescolata a un’amabile forza affabulatoria, a una soavità di chi sa troppo e vuol nascondere ciò che sa dietro una cortina di divagazioni. Perché Genovesi divaga, ma sa bene che la sola strada maestra è quella disegnata dalle tappe del Giro: «Ci sono ancora mille traguardi in fondo a mille percorsi incasinati, mille strade storte, mille terre tutte nuove che aspettano solo di essere tagliate in due da ruote che girano e cuori che battono forte».