Gabriele Romagnoli, la Repubblica 31/10/2013, 31 ottobre 2013
QUANDO UN QUADRO È LA STAR
La ragazza è diventata una popstar. Con l’orecchino di perla. Mentre la fila di fan accorsi per vederla si muove lenta lungo la Settantesima strada di New York, l’inviato di una tv olandese porge il microfono e domanda: «Perché siete qui?». Tutti rispondono: «Per lei». Quando insiste: «Perché volete vederla?», molti alzano le spalle, altri dicono «è bella», «è famosa». Qualcuno: «Non tornerà più». È una fascinazione. È un fenomeno. È un piccolo quadro, come tutti quelli (poche decine), dipinti da Vermeer: 44,5x39 centimetri. Quando finalmente lo vedrò noterò che hanno messo una cornice intorno alla cornice per conquistare lo spazio in cui galleggia.
Come una vera popstar “la ragazza” è in tournée. Mentre restaurano la sua casa all’Aja gira il mondo. È stata in Oriente, ora è negli Stati Uniti, prossimamente in Italia, a Bologna da febbraio.
Già nella primavera scorsa apparvero le pubblicità per la prevendita dei biglietti. Quasi un anno d’anticipo e uno slogan tra l’eclatante e l’ansiogeno: “Una volta e mai più”. La sensazione dell’evento irripetibile è quella che spinge a esserci, per incontrarla prima che “scompaia”.
Abitare all’Aja è un po’ come non esistere. Anche gli altri quadri esposti in quella sede l’accompagnano, ma è una scorta invisibile. Sui manifesti, sui giornali, nelle conversazioni, c’è soltanto la ragazza. Come in altre occasioni (ultima la Dama con l’ermellino di Leonardo) è una mostra monoquadro. Sono, siamo tutti lì per un unico dipinto, non ci interessa Rembrandt, non ci interessa la permanente della Frick Collection, tra stucchi e giardini d’inverno. Vogliamo la ragazza: una volta e mai più. Perché questa attrazione? Che cosa la giustifica? In una interpretazione da profano esistono un prima, un mentre e un poi.
Il prima è quel che di lei sappiamo senza averla incontrata. La sua fama è tardiva e crescente. La sua origine, incerta, è datata nella seconda metà del Seicento, 1665 circa. Vermeer fu noto in vita, ma poi dimenticato a lungo. E la ragazza con lui. Nella riscoperta, lei è diventata la sua immagine. Due libri (“La ragazza con il turbante” di Marta Morazzoni e “La ragazza con l’orecchino di perla” di Tracy Chevalier), il film omonimo con Scarlett Johansson (che, come dirò poi, non è più il volto ideale) l’hanno resa popolare. Non solo famosa, popolare. Tutti sanno, vagamente, che esiste. E ne conoscono, vagamente, la storia. Che è, appunto, vaga.
Un mistero, come tutte le raffigurazioni popolari. Era la figlia di Vermeer, la domestica, l’amante. Era esotica, straniera. Era una popolana. Con una perla da nobile. Ma troppo grossa per essere vera. Infatti non lo è: sono due pennellate che creano un’illusione. Non lo è forse tutto? Ce n’era una terza, scoprirò leggendo in sala, ma era una goccia, caduta in un restauro e rimossa in uno successivo. Un’illusione nell’illusione. È affascinante. È seducente. È, questo aggettivo che sto per scrivere lo troverete, immancabile, in qualsiasi testo e conversazione al riguardo: languida. Perché? Lo verificherò d’impatto: per via della bocca dischiusa, di quella luce che Vermeer ha appoggiato sul labbro inferiore. È una promessa, penserò. Ma soltanto “prima”. Nel preconcetto, nella visione a priori. Dal vivo, sarà diverso.
E allora dentro, con questa folla da grande occasione. Ci siamo prenotati online. Ci è stata assegnata una data e un’ora, in un futuro che pareva all’epoca lontano e incerto. Il mio appuntamento era un martedì di fine ottobre alle 4 e 40. Ho messo la giacca blu e sono venuto. All’ingresso mi hanno trattenuto l’intero biglietto: non avrò che ricordi mentali. Avanzo nel patio della casa museo e arrivo a questa sala circolare foderata da una boiserie di legno scuro. La ragazza è di fronte. Aspetta, nella doppia cornice. Guarda, di tre quarti. Siamo una dozzina, in questo turno, a ricambiare lo sguardo. Lo sentiamo nostro. Due donne fanno quello che tutti fanno davanti a un ritratto famoso: si spostano per verificare che gli occhi del quadro li stiano seguendo. Annuiscono soddisfatte: è proprio così. Attribuiscono un potere magico a questo effetto. Una specie di alchimia del pittore, capace di stregare. Resto a guardare, alternativamente, le quattro componenti principali del ritratto: il turbante, la perla, gli occhi, le labbra. E ancora: il turbante, la perla, gli occhi, le labbra. Esotismo, nobiltà, malinconia, languidezza. Ci sono veramente? O è quello che ci hanno detto di vedere? Se il turbante e la perla sono artifici del pittore per creare un personaggio, non lo sono ancor più occhi e labbra? Ma è un limite o è proprio questo che ci affascina?
Resta il fatto che continuiamo a guardare, a cercare. Che cosa? In un vecchio documentario realizzato da una tv inglese vidi l’allora presidente del tribunale dell’Aja, Antonio Cassese, raccontare la sua vita nella città olandese mentre si occupava dei processi per crimini di guerra nella ex Jugoslavia. Finite le udienze, quasi ogni giorno andava al Mauritshius, il museo ora in restauro, e si acquietava guardando le opere di Vermeer. Era il suo antidoto al male. Usciva dall’oscurità e cercava la luce. Non quella di un pomeriggio di sole, la luce in un tocco, la luce prodotta dall’uomo, per un’illusione o un miracolo, fate voi. Ma di quella aveva bisogno: della possibilità di credere che l’uomo, lo stesso che ordina stermini, partecipa a stupri di gruppo, seppellisce in fosse comuni, può anche fare una cosa infinitamente delicata. Due pennellate, una perla. Uno sguardo che attraversa i secoli per arrivare a dodici sconosciuti in un pomeriggio a New York e dire, a loro come a Cassese, che può esistere una luce. Anche se non c’è. Anche se i colori sono cambiati nei tanti restauri. Se lo sfondo che Vermeer aveva disegnato su una base verde brillante è nero opaco. Se vediamo cose che non vediamo. È per questo che siamo venuti, è per questo che siamo qui. Per una luce. Che il tempo non sa spegnere.
Poi finisce il mio turno. Prendo la metro. Torno a casa. Mi cambio. Vado a un concerto di Lang Lang. Esco. Cammino da solo in una notte fredda. E nella mente girano due immagini, due emozioni. Non è Scarlett Johansson il volto giusto. È Adele Exarchopoulos, la protagonista del film di Kechiche che ha vinto la Palma d’oro a Cannes. Le labbra dischiuse, lo sguardo che ti insegue. Siccome è negli occhi di chi guarda: per me è Adele. E non è la promessa di una passione, ma il suo riflesso. Una cosa che ti abita dentro comunque e dovunque: Oriente, New York, Bologna. Una volta. Mai più. E per sempre.