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 2013  ottobre 31 Giovedì calendario

IL MIO FELLINI ESOTERICO


[Filippo Ascione]

Donne inconfessate, pratiche esoteriche, la sperimentazione delle droghe. Le «altre vite» di Federico Fellini, sfuggite alle cronache dell’epoca e alle celebrazioni del presente, furono anche questo, un dedalo di azioni e suggestioni sopra le righe. Saldate però da un’indole definita: «La ricerca permanente delle emozioni proprie della fanciullezza».
A rivelarlo è Filippo Ascione, sceneggiatore del più grande regista italiano e suo amico personale fino alla morte. Correva il 31 ottobre 1993, 20 anni fa, ma a casa di «Filippicchio» (il copyright è di Fellini) il tempo è immutato. Foto, carteggi, disegni, persino la poltrona appartengono alla loro storia unica e fraterna. E poi i libri, 60 libri, soprattutto di spiritualismo, che il regista gli lasciò in custodia insieme alla bacchetta (potenzialmente) magica utilizzata per girare Prova d’orchestra.
Ascione, lei custodisce anche i retroscena più intimi di Fellini.
Lei però è avvertito che parlerò soltanto di quanto lui, Federico, approverebbe.
Allora, quando risponde, le chiediamo sincerità. Per cominciare, è vero che morì pieno di debiti?
No, a un certo punto è solo diventato meno ricco. Federico i produttori li ha sempre avuti, anche mentre stava male. La verità è che lui non accettava condizioni. Rifiutava di presentare un copione ben definito, non ne ha mai scritto uno. Nell’epoca dell’ottimizzazione delle risorse è diventata una cosa mal vista, tagliando fuori una fetta di mercato.
Fu mai invidioso di qualcuno?
Solo di uno: Georges Simenon.
Il papà del commissario Maigret.
Furono molto amici, Federico lamentava, ironico come sempre, che non sarebbe mai stato un artista grande quanto lui.
E perché mai?
Simenon gli aveva confessato di aver posseduto circa 10 mila donne. «Io non potrò mai arrivarci» ripeteva Fellini «così non diventerò mai un artista immenso».
A Simenon non bastava una musa ispiratrice come Giulietta Masina.
Giulietta è stata l’appendice di Federico: moglie, amica e sorella, la figura più complessa e quindi più completa per lui. Senza di lei non avrebbe mai potuto girare i suoi film. Forse non avrebbe potuto nemmeno respirare.
Fellini ha frequentato altre signore.
Sì, ma sono state pochissime. E poi, rispetto a Simenon, lo muoveva un altro spirito. Federico aveva vite parallele e le viveva appieno con donne che sono state nella sua vita per dieci, venti, trent’anni. (Silenzio improvviso). La prego solo di non chiedermi di più. Sono persone ancora presenti nella mia quotidianità. Le ammiro per la loro riservatezza, non voglio romperla io, oggi, mai.
Parliamo di Sandra Milo. Sostiene che la sua relazione con Fellini è durata 17 anni.
Ne dubito, Federico non amava gli attori e difficilmente frequentava le attrici. Amava viceversa dottoresse, architette, farmaciste, avvocatesse, persino le commesse, perché sono categorie rappresentanti la concretezza. Donne comunque bellissime, ma nelle quali cercava una maestra severa, non un materasso sul quale riposarsi. Tanto è vero che le sue sono donne mature, coetanee se non più grandi di lui, mai ragazzine.
Eppure, Fellini avrebbe potuto permettersi qualsiasi donna.
Basta guardare le sue caricature. Si rappresentava sempre come un bambino rimproverato da una istruttrice con grandi tette scoperte e un frustino in mano. Mentre i suoi sogni ricorrenti riguardavano la sfera erotica: lui, ragazzino, immerso con la testa dentro seni giganteschi. I sogni morbosi, insomma, di qualsiasi marmocchio, però perpetuati.
Sembra il «fanciullino» di Giovanni Pascoli.
Federico è stato un genio proprio perché nell’indole si è fermato all’infanzia, allo stesso sentimento di un bambino di 10 anni. Per capirci, alle donne-maestre raccontava frottole una dopo l’altra, senza peraltro averne necessità. «Sono un gran bugiardo» ammetteva «ma quanto è divertente…».
Non paventava di essere scoperto?
Certo, e pure i suoi timori palesavano i fremiti del ragazzino che si prepara all’esame per le elementari. Davanti alle bocciature di pubblico e critica non se la prendeva nemmeno un po’. Temeva invece il giudizio delle donne. Si curava tantissimo. Aveva sempre la colonia giusta e i soliti vestiti impeccabili, una sorta di divisa grigio perla, quasi fosse al collegio. Per i capelli affrontava un rituale. Andava da tale professor Goodman, un tricologo di Roma, che gli massaggiava il cuoio con una lozione presunta miracolosa. Il numero dei capelli era sempre quello, ma Federico era convinto che gli fossero ricresciuti.
Ingenuo, appunto, come il fanciullino.
Soprattutto pigro. Come tutti gli artisti veri, quindi svogliati, credeva a qualsiasi cosa gli venisse raccontata. Infatti era il meno regista di tutti ma anche pittore, poeta, scultore, musicista; era talmente pieno di competenze da risultare superiore a qualsiasi altro cineasta.
Fra le arti c’era pure la magia.
Federico era superstizioso, il paranormale fu un antidoto alla paura della morte. Fu un mondo parallelo, questo, condiviso con me e affrontato sempre in termini scientifici. Le nostre ricerche con medium, esorcisti e cartomanti partivano da testi importanti, come quelli di Rudolf Steiner. Nelle sedute spiritiche lui ha cercato il suo spirito guida, mentre io ora avverto la sua presenza e sento talvolta la sua voce.
Avete anche frequentato il celebratissimo sensitivo Gustavo Rol.
Io, grazie a Federico. Tra lui e Rol il tramite fu invece Dino Buzzati. Fellini mantenne però con il maestro un rapporto esclusivo e paritario. D’altronde Rol materializzava di persona il pensiero, Fellini lo faceva nei film.
Il «Satyricon» fu un incredibile esempio di lungometraggio onirico.
Venne distribuito nel 1969 e fu un buon successo. Il dettaglio è l’epoca, quella dell’Lsd e degli hippy. Federico mi ha raccontato che per loro organizzò una prima segreta a New York. Ne uscirono entusiasti, al punto che si convinse che il Satyricon andasse visto dopo avere assunto droghe. Solo così lo spettatore medio ne avrebbe catturato il significato autentico.
Anche lui provò l’Lsd?
Non ne ho idea. So però che sperimentò la mescalina con il suo terapeuta, il professor Ernst Bernard, allievo diretto di Carl Gustav Jung. Giulietta gli impose di smettere quando Federico rischiò di morire.
Un’overdose?
No, per carità. Lo studio dello psicoanalista si trovava al quarto piano, ma lui era convinto che fosse a livello strada. Voleva uscire per prendere un po’ d’aria ed è rimasto appeso alla finestra.
Fosse caduto…
Mi sarei perso la parte più formativa della mia vita. Ma Federico mi manca molto ancora adesso: i suoi sorrisi, la sua cura e le telefonate alle 6 e mezzo del mattino; le cene dal Toscano e da Cesarina; i santi e i criminali che abbiamo incontrato, le nobildonne e le puttane, i galantuomini e i balordi. Giornate intere trascorse con persone che col cinema non c’entravano nulla. O, forse, c’entravano tutto.
(Salutiamo, ma veniamo fermati sull’uscio. «Non mi ha chiesto dell’ultima volta che l’ho visto, al Policlinico di Roma». Non ci dà il tempo di replicare. «Era provato, semincosciente. Poi Federico ha un sussulto, si accorge di me e dice: “Guarda Filippicchio, che se ne sta rannicchiato lì, all’angolo del letto: presenta la stessa grazia dei gatti”». Ora Ascione può finalmente liberare il pianto, voleva farlo da due ore almeno).