Gabriele Romagnoli, Vanity Fair 30/10/2013, 30 ottobre 2013
COME BUTTARSI VENT’ANNI ALLE SPALLE
UNA PERSONA CARA MI DOMANDÒ: «Hai mai notato che molti di quelli che chiami tuoi amici sono o sono stati in galera?». Ci ho pensato a lungo e alla fine credo di aver capito perché le cose stanno così. Dal mio punto di vista ci dividiamo in due categorie: quelli che l’hanno fatta franca e quelli che si sono fatti beccare. La seconda di solito è più interessante. Perché ha pagato o sta pagando il conto, ha un’etica che è stata messa alla prova, dimostra spesso una spietata sincerità verso se stessa e il resto del mondo, verso la vita in genere. In definitiva, c’è da imparare.
Questo pensavo andando a Giulianova per incontrare Gabriellino. Il suo vero nome è Fioravante Palestini. Il soprannome con cui tutti lo conoscono è l’Uomo Plasmon. La sua storia è stata pubblicata su queste pagine, in una bella intervista. E trasmessa da La storia siamo noi su Raitre. La trovate su YouTube. Ma in sintesi: Gabriellino (così ribattezzato perché nipote di un Gabriele) viveva a Giulianova e sviluppava un fisico possente. Tanto che un regista di passaggio lo ingaggiò per una serie di pubblicità in cui mostrava ineguagliate terga: per Mellin, ma soprattutto per Plasmon. A 37 anni era famoso, di spalle.
Accade che l’allora uomo di mafia Gaspare Mutolo affittò una villa sul mare a Giulianova e, dopo averlo conosciuto, gli affidò l’incarico di trasportare un cargo dalla Thailandia. Uomo di mare, Gabriellino accettò. Sapeva, giacché era stato a Palermo a farsi conoscere, che cosa trasportava, all’ingrosso. «Signori un ultimo tè, il nostro porto d’attracco non dà segno di sé», cantava Ivano Fossati in Panama. Fu bloccato in acque territoriali egiziane. Trovarono la droga in cambusa. Venne arrestato e condannato a 25 anni in galere che in Italia se le sognano. E sono incubi. Uscì dopo vent’anni, nel 2003. Quel giorno ero all’aeroporto del Cairo ad attenderlo, ma la stampa era in sciopero. L’intervista si ridusse a qualche convenevole e una domanda: «Là dentro hai saputo chi governa adesso in Italia?», «Berlusconi. E mi è simpatico». Ciao. Buon viaggio.
Dieci anni dopo ci ritroviamo davanti al mare. Non è ancora inverno, la dolcezza concede proroghe. Gabriellino è riconoscibile dal torace che arriva molto prima della testa, come una donna con l’ottava. Ha mani immense e un sorriso sghembo. Non si bara con i bari: so esattamente in quali espressioni nasconde la sofferenza. Beviamo campari shakerato, mangiamo ostriche. Concede confidenze sulla figlia che vive in Messico e sul nipote Sebastian. Mi fa vedere il pattino con il quale traversa l’Adriatico a remi. Giallo e blu, un cuscino sul sedile, due ciabatte montate davanti. Trenta ore la prima volta. Poi ventotto: record. Proverà a batterlo l’agosto prossimo. Si allena: duemila vogate l’ora, contandole, senza pensare a null’altro. Un esercizio zen: come meditare e svuotarsi. Una, due, duemila, diecimila. Guardiamo l’orizzonte, ci guardiamo in faccia.
E quei vent’anni di galera?
Fa un gesto: si passa una mano sulla faccia come a togliersi qualcosa che lo intralcia. Dice: «Sull’aereo che mi riportava a casa ho pensato: se voglio vivere devo dimenticare, cancellare quei vent’anni come non fossero mai accaduti, e questo ho fatto».
Si chiama rimozione. Qualsiasi analista inorridirebbe. Elaborazione, pretendono. Del lutto, del trauma. Poi passiamo altri decenni a parlarne. Hai buttato vent’anni? Buttali alle spalle. E vai avanti.
Sapevo che qualcosa mi avrebbe insegnato, Gabriellino. Abbiamo, tutti, in questo Paese, trascorso vent’anni nel modo sbagliato.
A impoverirci mentalmente, moralmente e alla fine pure economicamente. A parlare di nulla, fare domande che avevano già risposta e, in definitiva, non la meritavano. Non abbiamo avuto visionari né visioni: soltanto qualche traveggola. E una miope quotidianità governata da un tristo cinismo. Le migliori menti si sono applicate a questioni immeritevoli. Giornali pieni della stessa cosa. Perfino libri. Perfino film. Bassa politica (e non è un gioco di parole). Alto tradimento (della ragione). Uno strepito infinito, dall’alba a notte fonda. Da tutte le parti. Sbagliato perfino come circo: dopo il numero del pagliaccio non è che può entrare un altro pagliaccio. le persone che credevamo serie si sono convinte di avere bisogno di una foto con il naso di plastica rosso da mettere nel curriculum. La colpa è mica è di chi glielo porge, il naso, l’occasione per rendersi ridicolo. Si diventa quel che si è o si è disposti a essere. Il problema non è chi propone, ma di chi aderisce.
È stato un carnevale estenuante: può bastare? O tocca a un’altra generazione di maschere? Sono stati vent’anni di... di cosa? Niente. La storiografia non scende così in basso. Ne c’è bisogno di tramandare ai posteri nessuno di quelli che c’erano e se c’erano dormivano. Niente di quel che hanno fatto e, soprattutto, non fatto, sostituendo la realtà con una brutta rappresentazione.
Sì, sento chiedere, ma poi come ripartiamo? La risposta me l’ha data Gabriellino, che fu l’Uomo Plasmon, non a parole, ma con i fatti. Giulianova, una splendida giornata fuori tempo massimo. C’è ancora il sole, è presto per l’inverno del nostro scontento e il mare è tutto lì davanti.
La risposta è: zitti e vogare.
Uno. due, duemila, diecimila...