Paola Jacobbi, Vanity Fair 30/10/2013, 30 ottobre 2013
SONO STATO IO IL VERO AMORE
A un certo punto mi dice: «Le interessa davvero sapere come è andata?». Annuisco e lui si alza, con passi incerti va a prendere un foglio e un pennarello da qualche parte di questo salottino della sua casa di Parigi dove vive con la compagna Bernadette. La mano trema un po’ ma disegna con precisione lo schema della scena più memorabile della sua carriera di giornalista: quell’istante del 24 novembre 1963, a Dallas, in cui Jack Ruby sparò a Lee Harvey Oswald, l’attentatore di John F. Kennedy che, proprio in quel momento, veniva trasferito alla prigione. «Io ero in piedi, qui», dice, indicando un punto sul foglio. «Ruby mi scansò con una spallata, fece un passo avanti a me e il colpo partì».
François Pelou mi racconta questa storia che chissà quante altre volte avrà raccontato con quel misto di entusiasmo e vanità che è la materia di cui son fatti i giornalisti e io, d’improvviso, non vedo più di fronte a me il signore di 87 anni, capelli bianchi e pelle segnata. Lo vedo come doveva essere quando lo conobbe Oriana Fallaci che, nelle prime pagine di Niente e così sia, libro a lui dedicato, lo descriveva così: «Un bel giovanotto dai capelli grigi e il corpo di atleta, il volto duro e attento, due occhi cui non sfugge nulla, insieme dolorosi e ironici».
La storia d’amore tra Oriana e François è raccontata in una buona porzione della nuova biografia in uscita in questi giorni dal titolo Oriana. Una donna. L’autrice Cristina De Stefano ha ricostruito attraverso letture e testimonianze la Fallaci privata, i suoi amori e le sue delusioni. Finora molto si sapeva della relazione con Alexandros Panagulis, poeta e rivoluzionario greco che fu compagno di Oriana dal ’73 al ’76 e materia del best seller Un uomo. Pochi, invece, i dettagli conosciuti di un innamoramento a senso unico per il collega italiano, Alfredo Pieroni. Un amore infelice che le fece scrivere «Ossessionata dal timore di venir presa al laccio e neutralizzata da una museruola, me ne andai per anni come un cane senza medaglia: libero e ringhioso. Respingevo chi si innamorava di me, mi proibivo di innamorarmi».
Poi, però, in Vietnam conobbe François, che allora dirigeva l’ufficio della France Presse a Saigon. La redazione era in rue Pasteur e lui era la persona da conoscere appena giunti in città.
Quel giorno, quale fu la sua prima impressione?
«Una ragazza piena di vita. Entrò, si mise a parlare con tutti, voleva sapere che fare, dove andare. Ai tempi, in Italia, era già una giornalista famosa ma io non lo sapevo».
Eppure rimase colpito.
«Non si poteva fare a meno di notarla. Tra l’altro, quel giorno, indossava una maglietta senza reggiseno sotto. Secondo me l’aveva fatto apposta, per attirare l’attenzione».
Un colpo di fulmine.
«Era bella e seduttiva. In più, aveva quel che chiamo il sex appeal dell’intelligenza».
Ma non era quel che si dice «simpatica».
«Con me era sempre divertente e dolce, anche quando mi prendeva in giro per i miei difetti o per cose che dicevo su cui non era d’accordo. Sono rimasto legato al suo ricordo e le ho sempre voluto bene, anche dopo che ci siamo lasciati».
Siete stati insieme quattro anni ma lei era sposato e, da cattolico, non volle divorziare. Si è mai pentito?
«Purtroppo la rottura fu inevitabile. Oriana fu talmente dura nei miei confronti».
Spedì a sua moglie l’intero pacco delle lettere che aveva ricevuto da lei negli anni in cui eravate stati insieme.
«Era convinta che io fossi ancora innamorato di mia moglie. Non era vero. Mia moglie Cheryl Stanley era un’attrice di teatro americana e il nostro matrimonio era a rotoli, ne eravamo entrambi consapevoli. Avevamo adottato un figlio perché non eravamo riusciti ad averne di nostri ma nel frattempo lei, depressa, si era messa a bere e non c’era più niente tra noi».
E con la sua ex moglie che rapporti ha?
«Nessuno, da molto tempo. Credo che sia ancora viva e che stia a Madrid».
Proprio Madrid fu il luogo della rottura con Oriana.
«Sì, frutto anche di un grande malinteso. Io ero fuori per un servizio, Oriana era arrivata con l’intenzione di vedermi ma, per una serie di ragioni di cui adesso nemmeno ricordo i dettagli, le dissi che quella sera non sarei stato con lei. La prese
malissimo, lo interpretò come la mia decisione di restare con mia moglie e il giorno dopo spedì le lettere».
Lei ha viaggiato, ha vissuto in parti del mondo in tempi dove fare i giornalisti era più prestigioso ma forse anche più pericoloso di ora.
«Si viaggiava in prima classe ma si metteva la propria vita in pericolo. Pensi che quando fui assegnato alla Corea, ci andai per ricostruire l’ufficio dell’agenzia. Dei cinque giornalisti che c’erano non ne era rimasto vivo nemmeno uno. Rapiti, uccisi in missione, caduti da aerei o elicotteri. Succede anche oggi, ma quelle guerre, in particolare Corea e Vietnam, sono state di una brutalità inimmaginabile. Non c’era giorno in cui non ci chiedessimo: “Ma chi me l’ha fatto fare?”».
Oriana era coraggiosa?
«Non aveva paura di niente. Una volta si arrabbiò perché non la portai con me durante una spedizione che sapevo essere pericolosa. Le dissi che non aveva senso mettere a rischio la vita di entrambi. Era furibonda».
Se potesse ancora viaggiare, oggi dove andrebbe a fare un reportage?
«Bisognerebbe andare in Medio Oriente, in Siria, probabilmente. Per spiegare bene alla gente che cosa sta succedendo: è una situazione così complessa. Ma io non sono mai stato attratto dal Medio Oriente. Tra l’altro, non ho mai capito il tono acceso delle posizioni anti arabe di Oriana. Mi viene da dire che se fossimo stati ancora insieme, non avrebbe scritto certe cose».
Ha mai avuto occasione di discuterne con lei?
«No, perché non avevamo più alcun contatto, ormai. L’ultima volta che le ho scritto è stato nel ’92: avevo letto che era malata e le ho scritto per augurarle la guarigione. Mi rispedì la lettera in una busta, senza averla letta».
Ci è rimasto male?
«Conoscendola, non mi aspettavo nulla di diverso».
Una volta un collega mi disse che le donne che vogliono fare questo mestiere, dove sono costrette ad avere una vita sentimentale difficile, sono un po’ squilibrate in partenza.
«Oriana non era squilibrata. Era una donna passionale, estrema in tutto quello che faceva, questo sì. Estrema nel rigore con cui lavorava. Ho seguito da vicino la preparazione di alcune delle sue interviste, da quella al comandante Giap a quella a Kissinger e, benché io avessi più esperienza, Oriana mi ha insegnato tantissimo».
Era anche molto innamorata di lei. Scriveva persino dei poemetti intitolati Pensieri della Falou mentre pensa a Pelou.
«Non li ho mai letti ma, sì, “Falou” era come si faceva chiamare da me».
Dopo il Vietnam, lei fu trasferito in Brasile e Oriana venne a trovarla a Rio de Janeiro più di una volta.
«Sì. E quando io fui espulso dalla dittatura militare, organizzò un comitato d’accoglienza pazzesco all’aeroporto di Parigi. C’era persino Marcello Mastroianni ad aspettarmi. Un giorno mi regalò una macchina, un altro si mise in mente di lasciare in eredità a mio figlio un mulino di sua proprietà in Toscana. La fermai giusto in tempo prima che andasse dal notaio».
Tanta generosità, eppure poca tolleranza per la sua condizione di uomo sposato.
«Avrebbe dovuto avere un po’ più di pazienza. La nostra separazione mi ha fatto molto male, oggi posso dirlo. E sono sicuro che quel libro, quello sul greco… come si chiamava?».
Alexandros Panagulis?
«Ecco, quello. Non era poi questo grande amore ma lei l’ha trasformato in una cosa enorme e gli ha dato quel titolo, Un uomo, solo per far dispetto a me, per dirmi che io non mi ero comportato da uomo».