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 2013  ottobre 30 Mercoledì calendario

CAPITALI CINESI IN 133 IMPRESE CON 2,6 MILIARDI DI FATTURATO


Tra il seminterrato in via Arena, a Milano, sede della conglomerata Temax, ora Genertec, e il palazzo del colosso delle telecomunicazioni Huawei, con la scritta in caratteri cubitali alla periferia di Roma, ci stanno, in mezzo, dieci anni di investimenti cinesi che solo in minima parte esprimono il potenziale economico di Pechino sull’Italia.
Una storia ancora tutta da scrivere, in gran parte, e a determinarla, in futuro, sarà la capacità di indirizzare e attrarre gli investimenti cinesi nella giusta direzione. I quattro pilastri alla base del Comitato intergovernativo in corso a Roma tra delegazioni cinese ed italiana indicano bene, perfino in dettaglio, quale sarebbe la via da imboccare anche rispetto al potenziale italiano e alle caratteristiche della nostra economia.
La Fondazione Italia Cina basandosi sulla banca dati Reprint del Politecnico curata da Marco Mutinelli cita a fine 2012 appena 79 gruppi cinesi, più 52 di Hong Kong. Ben 195 partecipate (133 da investitori mainland china, 62 da Hong Kong) per 10mila addetti, pari all’1% dell’occupazione delle imprese italiane a partecipazione estera, con un fatturato di 6 miliardi di euro.
Le 133 imprese a partecipazione cinese occupano 5.534 dipendenti, mentre il loro giro d’affari è di 2.665 milioni di euro; le 62 imprese partecipate da multinazionali di Hong Kong occupano invece 4.755 dipendenti.
Hanno un’associazione, le aziende cinesi in Italia, presieduta dal direttore di Bank of China, e si riuniscono a scadenze regolari, ogni volta c’è un posto nuovo da aggiungere.
Arrivano in Italia in cerca di un mercato, ma anche di know how. Aziende come Haier rappresentano un mix delle due cose. L’obiettivo qualità è stato un driver dell’acquisizione del gruppo Ferretti da parte di Weichai, Changan e Anhui sono arrivate a Torino in cerca di nuove tecniche di design, idem per Qinjiang che ha comprato i motorini Benelli.
Un terzo sono in Lombardia. Su 133 casi, 66 sono investimenti nuovi di zecca, negli altri casi si tratta di acquisizioni di attività preesistenti. Industrial and Commercial Bank of China, da due anni è a Milano, Huawei Technologies ha inaugurato a Segrate un centro di ricerca di competenza mondiale per tecnologie microwave. Crescent HydePark ha rilevato il controllo di Sixty. Changsha Zoomlion Heavy Industries cinque anni fa ha comprato Cifa (betoniere), Cosco ha il 50% del terminal container del porto di Napoli Co.Na.Te.Co. Oltre a Volvo Zhejiang Geely Holding. Huawei e Haier sono presenti con uffici commerciali, tra gli altri, Baosteel, Minmetals, Trina Solar, Yingli Green Energy e LDK Solar nelle rinnovabili, Lenovo e China National Chemicals, mentre Shanghai First Pharmaceuticals ha acquisito la Sirton.
Tra gli investitori di Hong Kong, emerge soprattutto la presenza del gruppo Hutchinson Wampoa, che controlla la società di servizi di telefonia mobile H3G: ha oltre 2.700 dipendenti, 2 miliardi di fatturato. C’è la catena di profumerie Marionnaud, mentre Johnson Electric nel 2002 ha rilevato il controllo dei motorini elettrici Gate.
C’è spazio per altre mosse? La logica direbbe di sì, se non fosse che gli investimenti in Italia e quindi anche quelli cinesi, devono passare sotto le forche caudine di burocrazia e intoppi infiniti, uno scenario che spesso scoraggia gli investitori di Pechino, noti per la loro prudenza come fattore decisionale, ma anche dall’impazienza di realizzare, tutti e subito, i profitti e rendimenti attesi.