Valerio Cappelli, Corriere della Sera 30/10/2013, 30 ottobre 2013
LA SVOLTA DEI FRATELLI MANETTI DA REGISTI-CULT AL CANE REX
«Quando ci hanno chiamato i produttori della serie, ci siamo chiesti: mica ci vorranno chiedere di fare la regia di Rex? Pensavamo fosse impossibile…». I Manetti Bros, ovvero i romanissimi fratelli Antonio e Marco, alfieri del cinema underground, che saranno ospiti al Festival del cinema di Roma (con Song’e Napule, fuori gara ), stanno girando i 12 episodi di Rex 7: andranno in onda su Rai2. Il nuovo ispettore è Francesco Arca, affiancato naturalmente dal cane pastore. Il numero 7 sottolinea le volte che la serie, nata in Germania nel 1994, è stata coprodotta, ambientata e realizzata in Italia.
Lo vedevate in passato, Rex?
«La verità? No. Ci siamo aggiornati, abbiamo visto un po’ tutto, con umiltà e voglia di divertire. Facciamo quello che ci piace, senza essere legati a schemi autoriali o snobistici. Ci siamo fatti una domanda: ci piace Rin Tin Tin? Sì. È un riportare Rex a Rin Tin Tin».
In che senso?
«Le fiction di casi criminali sono cupe, legate alla cronaca. Questa è una serie che risveglia il fanciullino che vive in ognuno di noi, i film che avremmo voluto vedere da bambini. Già la figura del cane porta leggerezza… Poi ci siamo spostati dal giallo al poliziesco, dal genere investigativo all’action movie. Cerchiamo l’emozione pura».
Ma come si riconoscerà la vostra impronta così personale?
«Dilatando certe situazioni, contro l’ultravelocità che nasce dalla crisi culturale. Non abbiamo l’ossessione del ritmo».
Com’è lavorare con un cane?
«Difficile, faticoso, divertente. Abbiamo scoperto che i cani capiscono le parole: l’addestratore Massimo Perla dice “abbaia” e lui abbaia, gli chiede di provare vergogna e si copre il muso con la zampa, dice “cerca” e si mette a cercare. Sul set abbiamo vietato le battute sugli attori cani».
Quando vi definiscono gli autori feticcio dalla fama sotterranea…
«Fare film di genere è come fare voto di povertà, siamo disposti a prendere meno soldi e a lavorare con budget più bassi per esprimerci come vogliamo. Ma quello che in Italia si chiama genere, nel resto del mondo è il 90 per cento dell’arte narrativa prodotta: come puoi dare un’etichetta? Siccome vestiamo da ghetto americano, oppure si pensa ancora al nostro Zora la vampira … Ma noi siamo ultraquarantenni tranquilli padri di famiglia dalla vita morigerata, la ribellione è nella creatività».
Come definite il vostro stile?
«Siamo in uno strano confine tra il realismo estremo e la fantasia più sfrenata. Non ci piace quando parlano dell’Italia aliena dei Manetti, o quando i colleghi pensando di compiacerci dicono che apprezzano la nostra ricerca. Noi ci consideriamo dei classici, veniamo dai fumetti ma ci rifacciamo a Hitchcock».
Dicono che siete cresciuti con i B movie.
«Non è così. Siamo cresciuti con Bruce Willis e non con Chuck Norris, con Dario Argento e non con Maurizio Merli. Siamo, per motivi biografici, figli degli Anni 80».
Siete più noti all’estero?
«Negli ultimi anni sì. All’estero non siamo visti come l’underground d’autore. Ci piace la roba popolare. Il nostro è un tipo di cinema che in Italia non si fa. A Hollywood hanno comprato i diritti per il remake di due nostri film, la fantascienza di L’arrivo di Wang e Piano 17 ».
Avete detto: meglio Conan il barbaro di Nanni Moretti.
«Non era un attacco a Moretti. Così come c’è Berlusconi e il berlusconismo, c’è una differenza tra Moretti e il morettismo. È una delle poche figure originali del nostro cinema, il problema è la mentalità che ne è derivata, una certa moda antispettacolare che censura come cultura bassa chi racconta la violenza. In Caro Diario , tortura un critico che parla bene di Henry, pioggia di sangue , ritratto cruento di un serial killer. Ma è violenta l’idea di torturare uno che ne parla bene».
Valerio Cappelli