Emilia Costantini, Corriere della Sera 30/10/2013, 30 ottobre 2013
LA TENTAZIONE DI BELLOCCHIO: IL DRAMMA DI CECHOV IN DIALETTO PUGLIESE
Zì Nicola e il Professore. Così si potrebbero ribattezzare Zio Vanja e l’intellettuale Serebrjakov nella trasposizione cinematografica in Puglia della celebre commedia di Anton Cechov, cui Marco Bellocchio sta pensando mentre è in prova con lo spettacolo teatrale.
«La vicenda è ambientata nella campagna russa — spiega —. Immaginando un film, vorrei portarla tra le masserie e gli ulivi della provincia pugliese». Sì, perché i due protagonisti sono Sergio Rubini e Michele Placido: il primo barese e il secondo foggiano, che nei rispettivi ruoli si apprestano a recitare l’opera in palcoscenico. Lo spettacolo, che li vede per la prima volta insieme a teatro, debutta venerdì al Manzoni di Pistoia (dal 3 dicembre al Quirino di Roma).
La storia è quella di un non felice ritorno a casa. L’attempato professor Serebrjakov, accompagnato dalla sua nuova consorte, la giovane Helena (Lidiya Liberman), ritorna nella tenuta di campagna curata con devozione dal cognato Vanja e dalla figlia di primo letto Sonja (Anna Della Rosa). La quiete domestica è scombussolata dall’arrivo di questi cittadini oziosi: Serebrjakov ha deciso di vendere il podere, ereditato dalla prima moglie defunta. Vanja, amareggiato, reagisce male e spara al cognato senza colpirlo.
«L’abulica routine — sottolinea Rubini — viene rotta da chi piomba lì, in campagna, con gli scintillii della città». «Nel film — ipotizza Bellocchio — i due protagonisti potrebbero parlare in dialetto, nella Puglia anni 50». Condivide Rubini: «C’è un’indubbia vicinanza tra la terra russa e quella del meridione italiano. Vanja somiglia a un aristocratico rurale del Tavoliere». E Placido: «Io ho qualche analogia con Srebrjakov: a 67 anni, sono sposato con una donna molto più giovane e bella (l’attrice Federica Vincenti, ndr ) e vengo ogni tanto assalito da smarrimenti: il teatro è una terapia psicoanalitica, lo specchio in cui si riflettono i tuoi limiti umani».
Il rapporto di Bellocchio col teatro è discontinuo: «Ma ne subisco il fascino. Rare le regie che ho firmato, ma ritrovo sempre il piacere del contatto con gli attori, che nel cinema è frammentario. Mentre con la cinepresa mi barrico nella mia esperienza, qui vado senza rete».
La tentazione di contaminare il palcoscenico con il linguaggio filmico è tangibile. Ammette il regista: «Immagino lo spettacolo come un film». Riflette Placido: «Il cinema di Bellocchio è teatrale».
Ma la preoccupazione di Bellocchio è la voce: mentre il cinema riesce a catturare anche un sussurro dell’attore, in teatro la «voce portata» appiattisce tutto. Il regista si fa aiutare dalla tecnologia: «Basterebbe un piccolo microfono, magari nascosto tra i capelli — ragiona —. Oppure dei microfoni direzionali, che captino i toni bassi. Vorrei trovare un modo per esaltare ed espandere la voce degli interpreti, senza che risulti una metallica voce al microfono». Questo Zio Vanja è già un film.
Emilia Costantini