Véronique Mortaigne, la Repubblica 30/10/2013, 30 ottobre 2013
JULIETTE E JAQUES
Juliette Gréco, 86 anni, ha sempre creduto nella forza dei simboli. Per questo ha l’abitudine di dare i suoi appuntamenti parigini al Lutetia, l’albergo occupato dallo stato maggiore tedesco durante la seconda guerra mondiale e che poi accolse i primi deportati di ritorno dai lager nazisti. È qui che nel 1945 Juliette Gréco ritrovò la madre e la sorella maggiore, internate a Ravensbrück per aver preso parte alla Resistenza. Tailleur- pantalone, stivali di coccodrillo, camicia scollata, tutta in nero, la signora Gréco ha appena pubblicato un album dedicato al suo amico Jacques Brel (1929-1978), Juliette Gréco chante Brel, dodici titoli curiosamente arrangiati dal pianista Bruno Fontaine insieme a Gérard Jouannest, che fu accompagnatore e compositore di Brel prima di sposare la Gréco. Con strumenti a corda ridondanti (Ne me quitte pas) o ridotti all’osso (La chanson des vieux amants, con il solo violoncello di Sonia Wieder-Atherton), Juliette Gréco cambia la prospettiva. Mai stanca, tenta un’appropriazione sfalsata del poeta belga.
Lei canta Brel sulle scene ormai da tempo, ma dedicargli un album non era una scommessa impossibile?
«Ho provato tante emozioni, tanto amore, tanta gioia. Abbiamo registrato tutto in studio, in diretta. Siamo stati felici. L’idea non è mia, è una proposta che mi hanno fatto in occasione del trentacinquesimo anniversario della sua morte. Ho pensato che fosse il momento di dirgli che lo amavo e di ringraziarlo. La scelta delle canzoni è stata fatta in modo strano. Ho riletto Brel a freddo. Riletto, dal verbo leggere. Quel mascalzone! È spaventoso quello che dice. Di una logica, di una lucidità, di una sobrietà, di una messa a nudo, di una crudeltà! Ho capito perché lo amavo tanto. Curiosamente, Amsterdam è una delle canzoni più dolci: “Si aprono la patta dei pantaloni, tanto peggio, urrà!; l’odore di merluzzo si sente fin dentro le patate fritte”, va bene; ma Ces gens-là, Le tango funèbre, è tutto abominevole! Ho ricavato uno strano piacere a leggere Brel. Sono arrivata alla conclusione che la mia forza era essere una donna. Lui è molto femminile a volte, nella crudeltà. In quanto donna, potevo regolare i conti, dire quello che lui non aveva detto, non aveva lasciato intendere. Qui siamo due, siamo lui e io, e il risultato per forza di cose è strano, inatteso».
Perché inserire delle canzoni che non ha mai cantato?
«Amsterdam, troppo mascolina. Ces gens-là per via di quel «Et moi j’aime Frida», la gente avrebbe mormorato… Ebbene sì, io amo Frida, lo sento profondamente. Ne me quitte pas mi esasperava… Non sopporto la debolezza delle persone che amo. E quando si trascina come uno straccio, intrisa di lacrime, mi indispettisce. Ho sentito una rivolta totale e l’ho presa all’inverso, la canto con una rabbia ferina».
Quando ha incontrato per la prima volta Brel?
«Nel 1954, ero sulla balconata del Gaumont-Palace a Parigi, un bellissimo cinema, con degli organi, e ho visto arrivare questo tizio dinoccolato, con un che di donchisciottesco. Suonava tre canzoni nell’intervallo, nessuno lo stava a sentire. Io mi sono arrestata di colpo, come un cane da caccia. Canetti (il proprietario del cabaret Les Trois Baudets) mi ha detto: «Ah! Le interessa? Si chiama Brel, è belga. Proviamo e vedremo… ». Abbiamo visto. Abbiamo preso Le diable (ça va). Gli ho detto: «Tutto il resto, sarai tu a cantarlo». Non ha mai dimenticato. Ci siamo amati seduta stante, da quel giorno finché non è morto ».
Quali prove d’amore le ha dato?
«Mi ha scritto delle canzoni, cosa che faceva molto di rado. Je suis bien, per esempio. Aveva cominciato con Vieille per Brigitte Bardot, che non ne ha voluto sapere. Io mi ci sono avventata sopra come una furia. E l’ho cantata con un gusto che oggi comprendo ancora meglio. «C’est pour cela, jeunes gens, que s’éveille le désir charmant de devenir vieille» [è per questo, giovani, che si risveglia il desiderio ammaliante di diventare vecchia], per non essere amata soltanto per le mie chiappe. In quegli anni si partiva in tournée per mesi interi. Ci vedevamo poco, con Jacques ci incrociavamo e andava bene così. È stato a letto con tutte tranne che con me: mi dico che forse ho sbagliato qualcosa, ma non mi interessava affatto, era lui che amavo. Come con Brassens. Che a quanto sembra mi ha fatto delle avances, ma io non mi sono mai accorta di nulla. Quello che c’era, era molto più interessante».
Alla fine ha sposato Gérard Jouannest, pianista, compositore, arrangiatore di Brel…
«Un giorno Brel porta On n’oublie rien. Gérard al pianoforte. Io arrivo con una vestaglia bianca di pizzo, leggermente trasparente – Gérard me l’ha raccontato poi – tirata giù dal letto, ero rientrata alle 7 di mattina… Ci siamo ritrovati qualche decina d’anni dopo. È un tipo straordinario, fuori dal comune».
J’arrive è uno dei vostri classici che figura su questo album.
«J’arrive, Brel non l’ha mai cantata dal vivo. Sono io che l’ho creata. Il giorno in cui è morto – perché è morto, a quanto pare – ho chiesto a Jouannest se eravamo in grado di suonare J’arrive. Lui ha detto di sì. Io avevo una sua scrittura privata, firmata e lasciata in bianco. Non è stato facile, né per lui né per me».
Che cosa ha pensato quando si ritirò in Polinesia?
«Tutta la sua vita è coerente fino in fondo. Ha scritto tutto, tutti gli argomenti che ha voluto trattare li ha trattati. Da galantuomo nel senso del XVIII secolo. Andarsene fu un atto di coraggio. Aveva detto tutto, bello, coraggioso, magnifico. Il ragazzo è stato esemplare».
Traduzione di Fabio Galimberti © 2013 Le Monde. Distributed by The New York Times Syndicate