Claudio Gallo, La Stampa 30/10/2013, 30 ottobre 2013
LONDRA COME DUBAI NUOVA CAPITALE DELLA FINANZA ISLAMICA
Prima il cancelliere Osborne apre la City agli investimenti in valuta cinese, ora il premier Cameron annuncia la costituzione di un fondo azionario islamico per attirare denaro dai Paesi musulmani: il dinamismo finanziario di Londra non ha limiti né rivali. Nel bene e nel male, la finanza della capitale sta trascinando il resto del Paese, più impoverito, sulla strada di una ripresa dal passo apparentemente più svelto che nel resto dell’Europa.
L’annuncio della creazione di «sukuk» britannici per 200 milioni di sterline per il prossimo anno e di un indice azionario per i titoli consentiti dalla sharia, la legge islamica, Cameron l’ha fatto inaugurando il nono World Islamic Economic Forum (Wief), ieri all’ExCel, il centro fieristico di proprietà di una società di Abu Dabhi, nella zona dei dock londinesi.
«Non voglio soltanto che Londra diventi la capitale della finanza islamica nel mondo occidentale - ha detto Cameron - vogliamo che stia al fianco di Dubai tra i grandi centri internazionali per questo tipo di finanza». Il premier ha criticato le nazioni, che secondo lui, non sanno stare al passo coi tempi, «che tirano su il ponte levatoio e rifiutano di ammettere che il mondo è cambiato», e certo «la Gran Bretagna non farà questo sbaglio».
Al summit, a cui partecipavano 1800 personalità dell’economia e della politica di 115 Paesi, c’era tra gli ospiti d’onore il primo ministro malese Najib Razak (il nome intero tiene due righe) il cui Paese è leader nella finanza islamica. Proprio mentre le saudite rischiano la galera se guidano l’automobile, Razak ha fatto un discorso «progressista» improntato sulla necessità di dare un ruolo maggiore alle donne nella società e nel mondo del business. Applausi generali e lodi anche dal principe ereditario del Bahrein Salman bin Hamed al Khalifa, il cui Paese non pare un paladino dei diritti, o dal presidente afghano Karzai, dal premier pachistano Sharif.
La finanza islamica sarebbe probabilmente piaciuta a Dante o a Ezra Pound perché considera qualsiasi tasso di interesse come usura e lo proibisce. Prescrive, in sostanza, l’obbligo di investire in modo socialmente responsabile, per lo più dunque in progetti di sviluppo economico che non siano contrari alla legge religiosa, come l’alcol o il gioco d’azzardo.
Ma perché l’Occidente dovrebbe interessarsi a una forma di economia arcaica che da noi predicavano i frati nel Medioevo? Lo spiega Khalid Ferdous Howladar, analista di Moody’s con base a Dubai: «Semplicemente ci troviamo di fronte a un mercato in forte crescita - dice - e l’Occidente cerca di attirare gli investimenti dalle aree con grande disponibilità di denaro, come il Golfo. Si tenga però conto che anche nel Golfo la maggior parte della finanza, tra l’80 e il 60 per cento a secondo delle aree, non è islamica. In Malaysia, il Paese all’avanguardia in questo tipo di business, il 70 per cento del mercato è costituito da prodotti convenzionali».
Il miliardo e mezzo (1,6 in realtà) di musulmani nel mondo sono un mercato appetibile. Come ha detto il premier malese: «Tredici Paesi musulmani insieme producono più laureati in scienze e in ingegneria degli Stati Uniti». Il prossimo anno il mercato della finanza islamica dovrebbe raggiungere un giro d’affari di 1,3 miliardi di sterline, con un incremento del 150% rispetto agli ultimi sette anni.
«Noi non abbiamo mai perso di vista il legame tra etica ed affari - dice Annouar Hajjouby dell’associazione BeeJust divisa tra Londra e il Qatar, che raccoglie investitori per la finanza islamica - le nostre attività sono sempre connesse con l’economia reale, con il sostegno del commercio e della produzione».