Vladimiro Zagrebelsky, La Stampa 30/10/2013, 30 ottobre 2013
TUTTE LE ANOMALIE DELLA NOSTRA GIUSTIZIA
La promessa di una «riforma della giustizia», lanciata da Matteo Renzi, accanto alla solita genericità che non dice cosa essa debba contenere, ha un aspetto di novità.
La novità consiste nel fatto che, con l’esempio grave d’ingiustizia da cui Renzi ha preso le mosse, quello di Silvio Scaglia, investe la giustizia penale. Fino ad ora nell’area da cui Renzi parte, prevaleva la posizione che indicava la sola giustizia civile come bisognosa di una profonda riforma, mentre quella penale richiedeva solo del bricolage occasionale.
Ora è evidente che i tempi lunghi - strutturalmente lunghi - della giustizia civile rappresentano un problema gravissimo per l’efficacia della protezione dei diritti e per l’economia nazionale. Piccoli aggiustamenti hanno dato piccoli risultati. Ma è soprattutto il settore penale che ha visto in campo un conservatorismo esasperato, che ha lasciato spazio solo a micro interventi legislativi dannosi per il sistema e utili solo a un’area di malaffare - incredibilmente vasta in Italia - composta di tanti personaggi in un modo o nell’altro potenti.
La paura che aprendo una riflessione di fondo non si sapesse dove si andava a finire, ha portato alla paralisi propositiva o alla tendenza a correr dietro a piccoli inutili ritocchi lessicali nella procedura penale.
Ingenuità lessicali
È di ieri su questo giornale un’intervista al responsabile giustizia del Pd che pensa di correggere l’eccesso di custodia cautelare in carcere inserendo nel codice la paroletta «attuale» accanto all’indicazione del pericolo di fuga o di inquinamento delle prove, che giustifica l’arresto in corso di processo. Santa ingenuità, verrebbe da dire. Non è problema che possa risolvere il legislatore con un’ulteriore modifica del codice di procedura, che è già chiaro e giustamente restrittivo. È alla magistratura che occorre rivolgere un forte richiamo, perché le norme siano applicate e non distorte, e alla Cassazione, perché svolga sempre rigorosamente il suo controllo. È fondamentale l’orientamento professionale dei magistrati, ma bisogna anche rimuovere uno dei motivi della distorsione, che consiste nei tempi lunghissimi dei processi, con il corredo di prescrizioni e inefficacia delle condanne. Potente è la tentazione della scorciatoia dell’arresto prima della condanna definitiva. Si propone allora – da parte dei «saggi» riformatori della Costituzione - una sconcertante operazione che vedrebbe la creazione di un nuovo organismo disciplinare, inventato per sovrapporlo a quelli già esistenti. Come se la «riforma» potesse iniziare - e concludersi - sul terreno della responsabilità disciplinare, invece che su quello della cultura professionale dei magistrati, della loro estrazione, formazione e destinazione al settore di attività cui sono adatti. Bricolage, anche questa volta, fuori bersaglio, anche se di livello costituzionale.
Addio bocche della legge
È invece ineludibile il tema difficile delle implicazioni sulle qualità professionali e sulla figura stessa del giudice, della tendenza incontrastabile all’aumento delle responsabilità dei giudici. La discrezionalità aumenta, altro che giudici impersonali bocche della legge! Aumenta perché i sistemi giuridici si complicano. L’aspirazione alla semplicità è comprensibile e in certi ambiti anche praticabile. Ma non sono evitabili gli spazi interpretativi che derivano dal sovrapporsi di norme nazionali e norme europee, norme ordinarie e norme costituzionali, oltre che dalla sempre maggior aspirazione a ottenere decisioni, non solo astrattamente legali, ma anche rispettose delle esigenze del caso concreto. Inoltre, come si sa, il legislatore ha rinunciato a disciplinare i temi «divisivi», cioè i più difficili, lasciandoli in mano ai giudici, che non possono evitare di decidere i ricorsi.
La figura professionale del giudice che decide in questo nuovo quadro di norme e di aspettative sociali è questione difficile in un ordinamento come il nostro, che è nel profondo ancora napoleonico. Ma con prudenza, senza immaginare rivoluzioni da un giorno all’altro, chi ci parla di «riforma della giustizia» dovrebbe prender atto che la «giustizia» è già cambiata e che occorre pensare alle conseguenze che ne derivano.
Meccanismo perverso
Il processo penale è disegnato apposta per incentivare ogni genere di espediente per allungarne i tempi. Il meccanismo della prescrizione dei reati è stato progressivamente modificato per farne strumento di strategie processuali dilatorie. La facilità con cui in Italia si ha accesso alle impugnazioni, in appello e in Cassazione, spinge a un loro uso distorto, al solo scopo di prender tempo. Se si guarda ai sistemi processuali che funzionano in Europa ci si accorge della anomalia italiana, fatta per impedire la conclusione dei processi e l’esecuzione delle sentenze. Senza una riforma delle regole di calcolo della prescrizione dei reati e senza una riforma del sistema delle impugnazioni non si esce dall’attuale stato di cose, che vede un’attività di magistrati e avvocati, tanto frenetica quanto improduttiva.
Ma la riforma - che vuol dire anche riduzione - delle impugnazioni deve affrontare un problema specifico, anch’esso esclusivo del sistema italiano. La Cassazione italiana è investita di una valanga di ricorsi, in materia sia civile, che penale. Nessuna Corte suprema in Europa decide anche solo lontanamente il numero di ricorsi che la Cassazione italiana deve trattare. E nessuna Corte suprema in Europa ha un numero così grande di magistrati. È esperienza ormai acquisita che la Cassazione, così come è costretta a lavorare, non può garantire tempi rapidi e non può assicurare una costante alta qualità della sua giurisprudenza. Inoltre il numero elevato di magistrati che rotano nella composizione dei collegi giudicanti, impedisce il mantenimento di orientamenti coerenti e costanti. I contrasti di giurisprudenza nella stessa Corte di Cassazione sono frequenti e incentivano i ricorsi, nella speranza di approfittare dell’orientamento favorevole, se la fortuna assiste. E comunque di guadagnar tempo: si ricorre in Cassazione anche contro sentenze di patteggiamento della pena, che l’imputato ha accettato o addirittura proposto! Se la Cassazione fosse messa in grado di svolgere il suo ruolo di definizione dell’interpretazione della legge, di meditata evoluzione quando ne viene il momento e di orientamento vincolante per gli altri giudici, come avviene in tutti i sistemi europei comparabili al nostro, una delle maggiori disfunzioni del sistema processuale sarebbe rimossa. Ma per farlo occorre ripensare la norma costituzionale che ammette sempre il ricorso per Cassazione contro tutte le sentenze, oltre che contro tutti i provvedimenti sulla libertà personale.
Campo minato
È questa una prospettiva minata, poiché è legata ad un’altra anomalia italiana: oltre 250.000 avvocati, di cui 40.000 abilitati a difendere in Cassazione. Caso unico in Europa; gli avvocati italiani, da soli, sono un quarto di tutti gli avvocati europei. In Francia ad esempio gli avvocati abilitati a difendere in Cassazione e in Consiglio di Stato sono 104. Nessuna incidenza sull’andamento dei processi in Italia? E, specificamente, sulla massa dei ricorsi in Cassazione? Non si può pensare, senza offendere la categoria, a una riforma che induca gli avvocati alla specializzazione? Basterebbe distinguere gli avvocati cassazionisti da tutti gli altri. Il numero si ridurrebbe naturalmente e la specializzazione crescerebbe; con essa diminuirebbero i ricorsi in Cassazione e aumenterebbe anche la qualità della sua giurisprudenza. In questo senso si è da tempo pronunciata la Corte europea dei diritti umani, preoccupata di salvare il ruolo essenziale delle Corti supreme nazionali, a difesa dello Stato di diritto.
Per chi si propone di «riformare la giustizia», pensando ai problemi reali e non a come sistemarsi nel puzzle della politica quotidiana, i temi sono numerosi e seri. Occorre guardare la realtà e le tendenze di fondo, con respiro adeguato.