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 2013  ottobre 29 Martedì calendario

VIOLENTA, SPORCA, MAGNIFICA ECCO CHI È MRS LONDRA


Si può scrivere la biogra­fia di una città, anamne­si­medica e profilo psico­logico? Un critico ingle­se, Peter Ackroyd, cui si debbo­no ben costruite vite di scrittori, da Shakespeare a Wilde, ci ha provato e il risultato è questa mo­numentale Londra ( Neri Pozza, pagg.622,euro 22;trad.Luca Ca­fiero). Quello che viene fuori è l’immagine di una metropoli vi­sta come un labirinto di pietra e di carne, organismo vivente e vo­race, insaziabile nel suo ingoia­re tutto e tutti, cibo, merci, idee, persone. Un corpo dal cuore pal­pitante scos­so da febbri ricorren­ti che si chiamano epidemie, in­cendi, sommosse, un’esistenza plurisecolare contrassegnata da cadute e risurrezioni, deca­denze palpabili e trionfi impres­sionanti, una bulimia di gran­dezza che assorbe tutto ciò che incontra intorno a sé.
Pur nella diversità data dai se­coli, dalle dimensioni, dal ruolo stesso avuto via via da Londra, al­cuni elementi rimangono co­st­anti e si impongono come fos­sero dei veri e propri tratti soma­tici, una sorta di identikit. Il pri­mo è la sporcizia, il «più lorda che Londra» della definizione di un prelato veneziano del XVII se­colo. Ancora a metà ’800,secon­do la Quarterly Review , non c’era uomo o donna «i cui abiti, pelle e narici, non fossero più o meno ricoperti di un misto di polvere, granito, fuliggine e so­stanze ancora più disgustose». Una scrittrice contemporanea, Iris Murdoch, a proposito del protagonista del suo romanzo The Black Prince dice che poteva
sentire «la densa sporcizia e il su­diciume di Londra sotto i piedi, sotto il sedere, dietro la schie­na ». È la sporcizia di una città vo­tata al commercio, all’accumu­lazione e­alla successiva elimina­zione senza andare troppo per il sottile, in una coazione a ripete­re che non trova mai il tempo per fermarsi, per riflettere, per progettare e che alla fine nascon­de, occulta, si trincea... Parlan­do della Londra vittoriana, Ackroyd vede il mondo esterno «schermato in quelle abitazioni da pesanti tendaggi, attutito dal­le tappezzerie, respinto da otto­mane, sofà e tavolinetti, ingan­nato da frutti di cera, l’oscurità metaforica e reale di Londra dis­sipata da lampade e candelieri ». Un secolo dopo quella sensazio­ne p­ermane e l’opacità delle abi­tazioni fa da contrasto con la lu­centezza dei negozi di design, la geometria delle boutique di mo­da.
Il secondo tratto distintivo che emerge da questo identikit è la violenza, una sorta di tensio­ne profonda, che spesso e volen­tieri esplode, di nervosità laten­te che spesso e volentieri ritorna in superficie, di darwinismo so­ci­ale che spesso e volentieri ma­schera una voglia di sopraffazio­ne. Arena della «lotta per la vita» e della«battaglia della vita»,Lon­dra presenta nei secoli un combi­nato disposto di rabbia e rissa, provocazione e scontro, rischio e scommessa.Agli inizi dell’800, il principe Herman Puckler-Mu­skau notò un bambino di otto an­ni che guidava il proprio carret­to in mezzo a un traffico caotico di carrozze e commentò: «Una cosa del genere si può vedere so­lo in Inghilterra, dove i bambini sono indipendenti a otto anni e impiccati a dodici». Un secolo prima un viaggiatore notava co­me la prima parola che salutas­se l­’arrivo di uno straniero in cit­tà fosse Damn it , dannazione, ac­cidenti. A inizio ’900 sarà bloo­dy , ovvero maledetto, e ai giorni nostri è fucking ...
È una violenza verbale, fisica e,come dire,simbolica.Per seco­li uno dei simboli di Londra fu il carcere di Newgate. Sempre allo stesso posto fin dal 1100, da subi­to emblema di morte e di soffe­renza, luogo leggendario dove le pietre stesse erano considera­te mortifere, luogo di ispirazio­ne come nessun altro per poe­sie, drammi, romanzi. Sinoni­mo di inferno, il suo odore per­meava le strade e le case attorno.
Giacomo Casanova, che ne as­saggiò «l’ospitalità» per un bre­ve periodo, lo descrisse come «una dimora di disperazione e sofferenza quale avrebbe potu­to immaginare Dante ». Demoli­to all’inizio del ’900, nel Museo di Londra i visitatori possono an­cora oggi vedere due delle gran­di porte che lo connaturavano e il palo delle fustigazioni dei «pa­zienti ». A lungo Londra ha avuto più prigioni che ogni altra città europea e una ballata seicente­sca recitava: «In un miglio di Lon­dra/ diciotto galere o prigioni/ e sessanta fra pali di frusta e gab­bioni... ». Il memorabile saggio di De Quincey L’assassinio co­me
una delle belle arti è ispirato ai delitti della Radcliffe Hi­ghway, sette raccapriccianti omicidi in otto giorni.
La violenza, naturalmente, non è un qualcosa legato stretta­mente alla criminalità, alla de­vianza: ha a che fare con pulsioni che hanno le loro radici in una visione del­la vita come sfida, in un’ansia di su­peramento, in una insofferenza verso vincoli, legami, rego­le, in una precarietà sentita come condizio­ne essenziale per ogni desiderio di cambiamen­to.
Se si dovesse scegliere un colo­re emblematico per accompa­gnare questi due tratti caratteri­stici della biografia londinese, la sporcizia e la violenza, Ackroyd non avrebbe alcun dubbio nello scegliere il rosso. «Le carrozze del primo Ottocento erano ros­se. Le buche delle lettere sono rosse. Lo erano, fino a poco tem­po fa, le cabine del telefono. Gli autobus sono tuttora caratteri­sticamente rossi. I treni della me­tropolitana lo erano un tempo. Rosse apparivano le tegole della Londra romana. Le mura origi­narie erano di arenaria rossa. Lo stesso Ponte di Londra era rite­nuto permeato di rosso, “mac­chiato dal sangue di fanciulli” co­me parte dell’antico rituale di co­struzione. I grandi capitalisti di Londra - la gilda dei commer­cianti di tessuti­indossavano li­vree rosse, i veterani del Chelsea Hospital portano ancora unifor­mi rosse. Rosso stava pure per oro nello slang cockney. I lavora­tori fluviali, che appoggiarono le bande che dilagarono per le stra­de nella primavera del 1768, in­ventarono la bandiera rossa co­me segno di un radicale malcon­tento ».
Di là dal suo abbinarsi perfet­tamente con la raffigurazione della violenza da un lato, con la sua esaltazione, potremmo di­re, e dall’altro con quella realtà occultata della sporcizia, il ros­so stinto delle sdrucite moquet­tes dei teatri e degli alberghi, l’idea di una tintura brillante co­me antidoto alla opacità, il rosso si addice a Londra perché le è connaturale e la contraddistin­gue. Nell’osservare le fiamme sprigionatesi dal Grande Incen­dio del 1666, il filosofo John Loc­ke scrisse che producevano «rag­gi di luce di uno strano rosso». Fra fine ’700 e primi ’900 andaro­no a fuoco 37 teatri. Dal parla­mento al Ponte di Lon­dra, non c’è istituzione cittadina che non sia stata distrutta dalle fiamme e ricostrui­ta. Il sole che, come una palla di fuoco, tramonta dietro Westminster re­sta un classico della pittura di Turner, Whi­stler, Mo­net...
Nello scrivere con passione e puntiglio la biografia della città, Ackroyd la presenta per quella che è: non particolarmente bella, non parti­colarmente emozionante, sen­za monumenti che la possano far paragonare a altre capitali, senza un edonismo del vivere che a altre capitali la faccia prefe­rire. E tuttavia il ritratto che con­segna è quello di una città dotata di un fascino strano, animale­sco eppure gradevole, moderno eppure antico, anarchico eppu­re con elementi fissi di ordine, pena altrimenti il collasso, liber­taria nella sua più assoluta accet­tazione delle diversità e delle li­bertà individuali. Una città in continua, perenne metamorfo­si, legata alla propria storia quan­to più quella storia è scomparsa.
Una Cartagine che riuscì a cre­dersi Roma e che ancora oggi si illude di essere il centro di un im­pero che non esiste più...