Fabrizio Galimberti, Il Sole 24 Ore 29/10/2013, 29 ottobre 2013
PAROLE CHIAVE (CON SBAVATURE) DELLA RENZECONOMY
«Supponiamo di avere un apriscatole...»: così rispose un giorno Tommaso Padoa-Schioppa a qualcuno che gli chiedeva di finanziare un programma di spesa con le privatizzazioni. Per i non-addetti ai lavori, il riferimento era a una famoso raccontino di Paul Samuelson: un economista, naufragato su un’isola deserta e senza vettovaglie, si chiede come aprire un barattolo in scatola che le onde portano a riva... La distanza, talvolta siderale, fra la realtà da modificare e la difficoltà a usare gli strumenti necessari a cambiare la realtà emerge regolarmente quando si analizzino i "programmi" dei partiti. E l’emergere di Matteo Renzi fra i primattori della politica italiana invita a guardare da vicino il "programma" di Renzi: a guardare le intenzioni e soprattutto a considerare se gli "apriscatole" sono più adeguati ed efficienti di quelli usati finora. Bisogna dire subito che un "programma economico" renziano ancora non esiste, se per questo si intende un documento serrato e cifrato con introduzione, capitoli, grafici, tabelle e conclusioni. Né è da aspettarsi che esista a questo punto della traiettoria: potrà esistere se Renzi verrà eletto segretario del Partito democratico e se e quando il Pd si preparerà alle elezioni.
È tuttavia possibile estrapolare cornici e concetti dalla mozione congressuale, da altri interventi e da contributi di collaboratori stretti, come Yoram Gutgeld. Vi ritroviamo un florilegio di denunce, di analisi e di rimedi in gran parte già conosciuti, dalla normativa soffocante - oltre duemila norme che regolano il mercato del lavoro, alla formazione professionale - spesso ritagliata più sui bisogni dei formatori che dei formandi, dalla necessità di incentivare le assunzioni di giovani a quella di proteggere chi perde il posto di lavoro a cinquant’anni, dalla rivoluzione digitale nella pubblica amministrazione alla proposta di mettere online tutte le spese delle amministrazioni pubbliche a tutti i livelli (una proposta da tempo avanzata da Luca Meldolesi nel quadro del suo "federalismo possibile"), dalla proposta - questa sì che sarebbe una rivoluzione - di non obbligare nessun cittadino o impresa a fornire documenti che siano già in possesso della Pa, a una politica per il Sud basata non su incentivi o "soluzioni alla ricerca di un problema" (come la Banca del Sud di Berlusconi-Tremonti) ma sulla rimozione degli ostacoli di fondo alla crescita (infrastrutture, lotta alla criminalità...), dal rifiuto di un’austerità fine a se stessa al riconoscimento che tanto più potremo convincere l’Europa ad allentare le camicie di forza dei vincoli quanto più avremo fatto i nostri "compiti a casa": quei risanamenti e quelle riforme che dobbiamo fare non perché ce lo chiede l’Europa ma per assicurare il nostro futuro.
Tutto vero e tutto giusto. E sarebbe difficile trovare grosse differenze, per quel che riguarda questi elenchi delle cose che non vanno e di quel che si dovrebbe fare, fra le intenzioni di Renzi e quelle del Governo in carica. Anche dove le proposte si fanno più puntuali - fermare l’eccessiva spesa delle indennità di accompagnamento che vengono date ai poveri e ai ricchi, o ridurre la soglia del contante per combattere l’evasione o separare il gestore della rete ferroviaria dall’operatore Trenitalia - è difficile trovare qualcosa che non sia già compresa fra le misure all’attenzione del Governo Letta.
Si ritrovano proposte più discutibili, come la priorità da dare alla riduzione dell’Irpef rispetto a quella del cuneo fiscale: una riduzione mirata a favore dei redditi più bassi e da finanziarsi con la vendita della case popolari agli inquilini (ma la mozione dice che tutti i ricavi da privatizzazione devono andare a riduzione del debito!) e, a regime, con i famosi proventi della lotta all’evasione. E c’è anche qualche sbavatura, come il ricorso alla cornucopia di decine di miliardi di sussidi alle imprese, un "tesoretto" che calcoli più attenti hanno largamente ridimensionato (sia in assoluto sia nel confronto internazionale con quel che fanno gli altri Paesi).
Là dove si notano accenti nuovi non è tanto nel quid agendum, quanto nel sostrato ideologico che vi è dietro. Già John Maynard Keynes osservò che «le idee degli economisti e dei filosofi della politica, sia quando son giuste che quando son sbagliate, sono più potenti di quanto si creda. In verità, son loro che governano il mondo». Gli "apriscatole" stanno nelle idee prima ancora che nelle tecniche. Ed è senz’altro rassicurante vedere che il Pd di Renzi è un partito di sinistra che vuole liberarsi di tanti bagagli ideologici che ne hanno finora appesantito il procedere e alleggerito il consenso. Il Pd non è il primo partito fra gli operai (è il terzo!), non è il primo partito fra i disoccupati, non è il primo partito fra gli autonomi, e ha dimezzato gli iscritti in pochi anni. Chiaramente, c’è molta zavorra da gettare. Bisogna difendere, dice Renzi, non solo chi lavora ma anche chi crea lavoro sfidando la concorrenza, bisogna difendere l’italianità della produzione, non l’italianità degli azionisti, bisogna attirare gli investimenti stranieri semplificando e sburocratizzando... Dice la mozione congressuale di Renzi: «Il Pd non sarà mai subalterno al mercato, che deve regolare. Ma proprio per questo la politica non può interferire con operazioni economiche e finanziarie che devono essere garantite da leggi chiare e non modificabili in corso d’opera. Proprio perché non siamo subalterni non ci interessano le avventure dei capitani coraggiosi o dei patrioti che nel corso dell’ultimo ventennio hanno alimentato un modello di capitalismo all’italiana più basato sulle relazioni che sui capitali». Sante parole. Speriamo che trovino ora gli apriscatole giusti.