Tommaso Labranca, Libero 29/10/2013, 29 ottobre 2013
E CON LA MORTE DI LOU REED SCOMPARE L’ALTER EGO DELL’ARTISTA
Lou Reed ebbe la fortuna di arrivare alla Factory a metà degli Anni 60, quando questa era ancora un covo esplosivo di esibizionismo disordinato e produttivo. Andy Warhol scoprì quel gruppetto in cui suonava e decise di mettere il suo nome-marchio e una banana sul primo disco dei Velvet Underground. L’anima del gruppo restò Lou che scrisse anche tutti i testi angoscianti di quel lavoro. Resi però da lui o da Nico, la modella tedesca inserita a forza da Warhol nel gruppo, con un atteggiamento impassibile. Warhol e Reed non hanno nulla in comune. Il primo è plastica, il secondo è carne. Il primo è completamente americano, nulla ha mantenuto delle radici slave. Il secondo è nato a Brooklyn, diventerà uno dei mattoni culturali più importanti di New York, autocelebrerà i caratteri della cittadinanza in un celebre brano New York City Man, ma dentro ha una fortissima componente europea. È più europeo del gallese John Cale e della tedesca Nico, compagni nei Velvet. È un’idea di Europa un po’ cialtrona: si fonda su un concetto spesso abusato: il tormento. L’americano non è mai tormentato. Al massimo è inquieto come i bambocci del rock’n’roll. Gli americani che scelgono il tormento all’europea finiscono per avere più seguito qui che in patria. Warhol derideva l’Europa, il suo accademismo, la sua storia. Reed ne era affascinato, sino dai tempi dell’università. Non a caso nel famoso disco con la banana c’è un pezzo intitolato European Son, dedicato a Delmore Schwartz, scrittore e suo professore universitario di origini rumene. Pezzo dal finale angosciante. Pure se il momento più alto di questa drammatica eurofilia sarà raggiunto nell’album Berlin. Definito concept-album, in realtà vera opera che all’opera italiana può essere avvicinato. Una Traviata tossica dove a Violetta subentra Caroline, due donne perdute e destinate a morte precoce. Cosa avrà capito Warhol di tutto ciò? Non lo sapremo mai, perché le strade dei due si divisero presto. Lou Reed non era tipo da stazionare sul divano della Factory come le aspiranti Girls of the Year in attesa che il Nume si accorga di lui. E poi le differenze tra i due sono troppe. Anche per la sessualità. Lou Reed spaventò i genitori con i suoi atteggiamenti bisessuali e quelli lo fecero sottoporre a elettrochoc. Warhol non userà mai il tasto dell’emarginazione omosessuale, benché non debba essere stato facile nascere gay in una città d’industrialismo machista come la siderurgica Pittsburgh. Avrà sofferto quando non veniva accettato a New York da altri due artisti Usa entrambi gay, Jasper Johns e Bob Rauschenberg, con atteggiamenti più mascolinu che mal sopportavano le «scheccate» di Warhol o gli aspetti camp della pop art. Per saperlo abbiamo dovuto aspettare proprio Reed che con John Cale incise un album dedicato all’artista morto, Songs for Drell, in cui cantava di come non fosse stato facile nascere «grasso e gay in una città di provincia». Drella, soprannome poco amato da Warhol, mescolava i nomi di Cenerentola e Dracula, aspetti vittimistici e crudeli dell’artista pop. Un soprannome adatto anche per Reed, tra momenti di down totale e altri in cui si autodichiarava il «più grande stronzo vivente».