Paolo G. Brera, La Repubblica 29/10/2013, 29 ottobre 2013
GROENLANDIA
Addio eterni silenzi sulle infinite distese di neve, la Groenlandia come l’abbiamo conosciuta o sognata non esisterà più: era una delle ultime oasi incontaminate della Terra, ma è destinata a diventare la nuova frontiera della grande corsa all’uranio. Con un solo voto di scarto espresso tra le proteste degli ambientalisti furibondi, il parlamento semi autonomo della grande isola — che fa parte del regno di Danimarca — ha eliminato la messa al bando dell’estrazione che durava da 25 anni, aprendo le porte allo sfruttamento di un sottosuolo ricchissimo di combustibile atomico e terre rare, materie prime rispettivamente delle centrali nucleari e dei gioielli delle tlc come smartphone e tablet. È una decisione storica che per i suoi critici avrà conseguenze drastiche non solo sul piano ambientale ma anche politico ed economico.
Il premier Aleqa Hammond ne aveva fatto un cavallo di battaglia, alle elezioni dello scorso anno: ai suoi 57mila concittadini, quasi tutti indigeni Inuit ospitati nei villaggi costieri, aveva promesso un benessere che la caccia, la pesca e il turismo non avrebbero mai potuto offrire, spiegando che era ora di rivedere le regole così severe sull’estrazione di materiale radioattivo che vigono anche in Danimarca. Da qualche anno, d’altronde, la Groenlandia ha ottenuto il diritto a una parziale autodeterminazione: se il regno resta competente per la difesa e le protezione dei confini, dal 2009 le questioni interne le può amministrare autonomamente, compresi i diritti di sfruttamento del suolo. E per le ambizioni indipendentiste non c’è occasione migliore per emanciparsi anche economicamente dalla Danimarca.
Ma da giovedì scorso, quando il parlamento ha promosso la rivoluzione mineraria governativa con 15 voti a favore e 14 contrari, gli ambientalisti sfilano nella capitale Nuuk sollevando grandi cartelli di protesta. Troppo elevato, dicono, il rischio di un disastro ambientale su un clima incontaminato. Parte dei giacimenti si trova nel più grande parco della Groenlandia, disteso sul 45 per cento dell’isola per un’estensione pari alla somma di Francia e Inghilterra. Quella che una volta era una terra inaccessibile, protetta dagli icerberg, con lo scioglimento dei ghiacci e l’incremento termico sta diventando una meta economica praticabile. Uno sfruttamento intensivo significa realizzare enormi infrastrutture, tra le praterie estive di erica tenerissima che aggirano aspre rocce, e significa aprire rotte commerciali su cui trasportare materiale pericoloso e altamente inquinante nelle terre degli orsi polari, dei caribù e del bue muschiato.
Intanto il parlamento raddoppia: contemporaneamente ha approvato anche una concessione trentennale a London Mining per estrarre ferro in cambio di royalties milionarie. La compagnia britannica lavora da anni in collaborazione con i cinesi, che già detengono il monopolio quasi assoluto delle terre rare.
Per estrarre queste ultime, spesso è indispensabile estrarre anche l’uranio: è la quadratura del cerchio, e l’australiana Greenland Minerals Energy ha già un piano da 810 milioni di dollari per portare in superficie insieme terre rare e uranio a prezzi concorrenziali. La corsa è iniziata, e sarà ben difficile arrestarla.