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 2013  ottobre 29 Martedì calendario

CAMBOGIA, NON È UN PAESE PER FALSI

PROGRESSISTI –

«Cosa hai fatto quest’estate?».
«Sono stato in Cambogia».
«Beeeello!».
Questo il commento entusiastico che riceverai dal milanese falso progressista reazionario di sinistra quando lo informerai di aver visitato il più disgraziato Paese del Sud-Est asiatico. «Beeeello!», esclamerà con gli occhi sgranati per lo stupore e le labbra dischiuse dal desiderio quel tipico esponente della nuova classe colta, creativa e cosmopolita di casa nostra.
E tu, allora, capirai, se per caso non lo avessi capito già, che il turismo è soltanto un immenso equivoco. Anzi, è forse il principale sistema escogitato dalla tarda modernità per equivocare sul mondo.
«Bello un c …!», ti verrebbe voglia di rispondergli mentre lui vagheggia risaie indimenticabili o disquisisce del pepe di Campot. Ti trattieni e mediti sui viaggi intercontinentali quali dispositivi evoluti di cecità organizzata che ci consentono di giungere in qualsiasi angolo del pianeta senza mai uscire davvero da casa, di giungervi come a un ennesimo parco giochi dello spirito torpido e della vita ottusa.
La Cambogia potrebbe, infatti, essere legittimamente definita affascinante, conturbante, seducente, ammaliante, arcana e perfino sublime, ma «beeella» proprio no. E non è solo un deficit lessicale a farcela definire tale. È un crampo mentale. Il turista falso progressista, provenendo da Milano, Parigi o Colonia – cioè da un mondo agiato che si ritiene oramai del tutto «inautentico», motivo per cui tributa il proprio culto farisaico a ogni idolo di autenticità – giunto in luoghi come la Cambogia s’illude di poter finalmente entrare in contatto con la realtà perché s’immagina che la miseria sia l’unica cosa «reale» al mondo. E dunque non la vede, ne ignora il fondo tragico, ne manca il risvolto violento. Insomma, il fatto che sia possibile per un numero crescente di turisti viaggiare in Cambogia percependola come un pittoresco Paese esotico d’incantevoli paesaggi e idillici primitivismi dimostra come l’incapacità di fare esperienza sia divenuto l’habitus dell’individuo occidentale di inizio millennio. Quella che gli appare come incontaminata purezza è, invece, il risultato della radicale distruzione su vasta scala di un intero Paese e del suo sistema sociale operata dai B-52 americani, dai khmer rossi e da trent’anni di guerra civile. La Cambogia, è, infatti, ancora oggi, ad avere occhi per vedere, un Paese assiso sul cumulo delle proprie fumanti macerie.
Ad avere ancora occhi per vedere, se giungi a Phnom Penh da Singapore, potrai fare esperienza del passaggio rapido e brutale dall’incubo realizzato del capitalismo avanzato ai sogni infranti del comunismo perduto. Decollerai dall’aeroporto più bello del mondo – moquette a terra, giardini botanici indoor, efficienza impareggiabile – e, dopo un’oretta di volo, atterrerai su una pista desolata, un prefabbricato senza aria condizionata e una schiera di stracchi funzionari vagamente sovietici a timbrarti il passaporto. Alle spalle ti sarai lasciata la metropoli in cui si concentra buona parte della ricchezza finanziaria orientale, un posto dove è reato gettare in terra una cicca, dove una birra costa 12 euro, dove i centri commerciali sono autentiche opere d’arte e lo shopping nei grattacieli ha soppiantato l’esperienza estetica, dove hanno estirpato la foresta pluviale e poi l’hanno riprodotta in vitro dentro immense serre ad aria condizionata, e davanti a te avrai la città terremotata da un’immane tragedia politica. Al decollo l’urbe ipermoderna come esperimento da laboratorio perfettamente riuscito, all’atterraggio la palestra arcaica dell’esperienza totalitaria sul vivente perfettamente fallita. Un’ora prima un corpo di lusso levigato dalla dittatura di Stato, un’ora dopo il corpo martoriato dalla totale assenza di Stato. In mezzo, a dividerle, il maestoso spettacolo del Mekong che srotola il suo placido, solenne corso fino a perdita d’occhio.
Phnom Penh è una città esplosa e mai più ricomposta. Considerata un tempo la più bella delle tre capitali francesi d’Indocina, crebbe progressivamente fino a 500 mila abitanti durante il pacifico regno di Shianouk, poi, nella prima metà degli Anni 70, quando i bombardamenti a tappeto degli americani sui contadini inermi delle regioni orientali non lasciò loro altra scelta che non fosse quella tra arruolarsi con i khmer rossi o esodare verso la capitale – e, in entrambi i casi, rischiar di morire –, esplose fino a quasi tre milioni di persone, quasi tutti profughi senza assistenza, né dimora né fonti di sostentamento. Una volta preso il potere, però, Pol Pot la svuotò di nuovo. Attuando il suo programma rivoluzionario di trasformazione dell’intera Cambogia in una cooperativa agricola, dopo aver abolito il corso della moneta, il sistema postale e chiusi gli ospedali (anch’essi simbolo della modernità corrotta), forzò l’intera popolazione della capitale a trasferirsi nelle campagne, dove buona parte di essa sarebbe morta di stenti e di malaria. In quei giorni, decine di migliaia d’esponenti della classe colta furono semplicemente sterminati (si dice che chiunque portasse gli occhiali fosse immediatamente assassinato). Il ripopolamento cominciò soltanto negli Anni 90, sulla stessa base di violente e caotiche migrazioni di massa. Oggi siamo di nuovo a 2 milioni di persone.
Una storia terribile che si prolunga fino al presente. Se ti fosse capitato di sbarcarvi il 20 luglio 2013, come è capitato a chi scrive, acciuffato uno dei pochissimi taxi in circolazione – a Phnom Penh non esiste trasporto pubblico – ti saresti ritrovato in un colossale ingorgo causato dai rally dei militanti politici mobilitati per le imminenti elezioni. Migliaia di ragazzi inneggianti alle onnipresenti effigi di Hun Sen, l’uomo forte che governa a Phnom Penh dal 1985. Lo stesso uomo che la distrusse assieme ai khmer rossi di cui faceva parte quando, dopo aver perso un occhio nella battaglia per la capitale, vi entrò trionfalmente al seguito di Pol Pot nel 1975 (salvo poi disertare per rifugiarsi in Vietnam due anni dopo). È, infatti, ancora il suo volto sinistro che molti ventenni cambogiani sbandierano oggi in sella ai loro scooter di fabbricazione vietnamita mentre impazzano per giorni sgasando tra le strade dissestate attorno al Russian Boulevard in frastornanti caroselli elettorali.
Quella storia terribile, d’altronde, la ritrovi un po’ ovunque. La ritrovi nel Museo Tuol Sleng, l’ex liceo trasformato da Pol Pot nel principale centro di detenzione e tortura del Paese (vi furono seviziate a morte 17 mila persone). La ritrovi nelle minuscole aule completamente spoglie, dominate soltanto da brande metalliche cui ammanettavano i torturati, piccoli antri di una ferocia rudimentale, cavità di una storia in cui l’umanità si è ridotta alla compenetrazione tra un addome, una clavicola o una nuca e una ferraglia spuntata, la ritrovi soprattutto nella perdurante assuefazione alla crudeltà da parte dei cambogiani che consente ai turisti di scattare foto ricordo di se stessi in un tale sacrario del dolore estremo (lo ha fatto, vergognandosene ora e allora, anche chi scrive e mai si sarebbe sognato, per dire, di lasciarsi fotografare davanti alle matasse di capelli o di occhiali di Auschwitz). La ritrovi, però, anche la sera in discoteca. Nella ragazza che ti digita sul cellulare il suo nome khmer perché tu lo possa imparare ma si schermisce quando tu le digiti il tuo. Capirai in seguito che non sa né leggere né scrivere, come la stragrande maggioranza delle sue coetanee perché, cresciuta nel Paese in cui Pol Pot aveva sterminato chiunque avesse un’istruzione, non ha avuto nessuno che glielo potesse insegnare.
Il catalogo potrebbe continuare. Così come potrebbero iniziare il racconto delle tante meraviglie – a cominciare dai templi di Angkor – che fanno della Cambogia un Paese letteralmente meraviglioso. Anche io, lungi dal voler dissuadere, ne consiglio la scoperta. A patto di non definirlo «beeeello!» dopo aver gettato uno sguardo distratto nel suo abisso.