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 2013  ottobre 10 Giovedì calendario

In memoria di Adriano La vita di Olivetti che sognò un’Italia diversa e costruì il primo computer al mondo è ora un film (giallo) con Luca Zingaretti Michele Soavi, il regista ma anche discendente, dice: «Era mio nonno

In memoria di Adriano La vita di Olivetti che sognò un’Italia diversa e costruì il primo computer al mondo è ora un film (giallo) con Luca Zingaretti Michele Soavi, il regista ma anche discendente, dice: «Era mio nonno. Quando morì avevo tre anni ma di lui ho un ricordo indelebile, quelle immagini che ti si bloccano nella memoria e niente può scalfirle. Un giorno venne a pranzo a casa nostra e mi portò in regalo dei birilli di legno con una palla per abbatterli, un bowling rudimentale. Dopo pranzo, lui si appisolò in poltrona e io provai il nuovo gioco. Mi uscì un tiro sensazionale e la palla colpì i birilli con un fracasso infernale. Accorse subito la tata che mi sgridò perché il nonno stava riposando. Lui era stato effettivamente svegliato dal rumore ma non si arrabbiò. Mi fece un sorriso di quelli che in famiglia abbiamo sempre chiamato sorrisi da lucertola: senza mostrare i denti, tendendo solo le labbra e le guance. Tutti in famiglia abbiamo sempre sorriso così, deve essere un fatto genetico». Luca Zingaretti, l’attore, dice: «Sinceramente conoscevo poco la sua storia. Per me era l’industriale delle macchine per scrivere e dei computer. Studiandolo per portarlo in scena ho capito che è stato un uomo dalle visioni straordinarie che prevedeva e interpretava il futuro. Uno di quelli che hanno fatto l’Italia negli Anni Cinquanta e le permettono ancora oggi di sedere al tavolo dei grandi della terra». Franco Bernini, lo sceneggiatore, dice: «Aveva un’idea dell’industria che non era quella tipica italiana. In Italia si ha, spesso, un’idea parassitaria dell’industria: si privatizzano gli utili e si socializzano le perdite. Lui socializzava gli utili». Silvia Napolitano, la sceneggiatrice, dice: «Era una figura talmente al di fuori del tempo e dello spazio che viene da chiedersi come sarebbe stata l’Italia se la sua avventura non fosse finita troppo presto. I suoi scritti, le sue teorie mi hanno rapita. Lo confesso, mi sono innamorata di lui. E credo che mai come in questa fase della nostra storia si possa apprezzare la sua grandezza». Finalmente qualcuno in Italia (a parte la gloriosa Fondazione guidata dalla figlia Lalla) si è ricordato di Adriano Olivetti, lo Steve Jobs italiano (ma sarebbe più esatto dire che Steve Jobs fu l’Adriano Olivetti americano, tanto per mettere le cose nel loro giusto ordine), l’uomo che costruì il primo calcolatore elettronico al mondo. Più di tutti se n’è ricordato Luca Barbareschi che ha mosso mari e monti per produrre un flm (eccellente e benemerito), Adriano Olivetti. La forza di un sogno (in onda su Rai Uno il 28 e 29 ottobre) con Luca Zingaretti protagonista e Michele Soavi, nipote di Adriano, figlio della figlia Lidia, regista. Dice Luca Barbareschi, il produttore: «Mi ci è voluto un decennio per riuscirci. Io sono figlio di ebrei e in casa, quando ero ragazzo, circolavano i libri di Comunità, la casa editrice di Olivetti. A un certo punto, mi sono tornati in mente. Li ho ripresi e dentro c’era tutto quello che avevo cercato di dire quando per cinque inutili anni sono stato in Parlamento». In Italia Adriano Olivetti rappresenta da sempre un soggetto scomodo. Cerchiamo di capire perché ripercorrendo la sua vita a cominciare (come succede anche nel flm) dalla sua morte, perché forse in quella morte si annida qualcosa di misterioso. Adriano Olivetti morì per un malore su un treno diretto a Losanna nel 1960, ad appena 59 anni. In quel poco tempo era riuscito a compiere una serie di imprese eccezionali. Aveva trasformato una piccola fabbrica di Ivrea nell’industria leader delle macchine per scrivere arrivando a comprare il colosso americano Underwood (quello delle macchine per scrivere nere e imponenti che si vedono nelle foto degli scrittori Raymond Chandler e Dashiell Hammett). Ma le Olivetti non erano solo macchine per scrivere. La più famosa e rivoluzionaria delle creature olivettiane, la Lettera 22, è stata considerata un’opera d’arte (lo rimane) ed esposta nel museo d’arte moderna di New York. A suo tempo si classificò al primo posto nella lista dei 100 oggetti da salvare degli ultimi 100 anni. Ricerche di mercato. Dice Luca Zingaretti: «La Lettera 22 non fu solo uno strumento per scrivere ma un oggetto che entrò nella vita di tutti i giorni, uno di quegli oggetti che fa epoca. E che fece iconografia perché viene subito in mente la famosa foto di Indro Montanelli che scrive un articolo seduto quasi per terra con la macchina sulle ginocchia. Io, poi, ho un ricordo personale di Suso Cecchi d’Amico, la sceneggiatrice dei flm di Luchino Visconti e di tanti altri, nella sua villa di Castiglioncello con la sua Lettera 22 blu sempre dietro. E penso ancora all’ultimo reportage su Pier Paolo Pasolini in vita, ritratto da Dino Pedriali nella torre di Chia, vicino a Viterbo, dove, in mezzo a un arredamento spoglio, minimalista come si dice oggi, spicca la Lettera 22 poggiata sulla scrivania». C’è una scena del flm che racconta come nacque la Lettera 22 e che fa vedere come pensava Adriano Olivetti. Quando nel quartiere generale di Ivrea decisero di produrre una macchina portatile fu fatta una ricerca di mercato. Come avrebbe voluto la gente una macchina per scrivere portatile? Le risposte furono concordi: solida, robusta. Olivetti fece il contrario e chiese ai tecnici di realizzare una macchina leggerissima, colorata, aerodinamica. I suoi collaboratori gli fecero presente che era da pazzi andare nella direzione opposta a quella indicata dalla ricerca di mercato, significava votarsi a un sicuro insuccesso. Olivetti non volle sentire ragioni e spiegò che quel tipo di inchieste fotografano il passato e non il futuro, sono, per loro natura, conservatrici (la gente è conservatrice fino a quando non gli dai l’occasione di sognare qualcosa di nuovo). E ragionando così (sragionando, secondo i suoi critici) Olivetti votò a sicuro successo la sua prima macchina da scrivere portatile arrivando ad aumentare la produttività del 500% e le esportazioni del 1300%. Il punto di vista di Olivetti non era originale solo riguardo alle ricerche di mercato ma a ogni aspetto del lavoro di fabbrica. Così ben presto si diffuse la leggenda (che era realtà) di un datore di lavoro preoccupato che i suoi dipendenti avessero a disposizione asili nido, scuole elementari, ambulatori medici, palestre, case con orto e garage acclusi, biblioteche, cinema, circoli culturali. Gli operai venivano invitati a usare, se ne avevano la necessità, i servizi culturali anche durante l’orario di lavoro. Ed è celebre l’aneddoto della delegazione sovietica che venne a visitare la fabbrica di Ivrea. Gli ospiti si stupirono non vedendo gente incatenata alla postazione di lavoro ma libera di muoversi e così chiesero: «Ma è un giorno di sciopero?». La batteria sempre scarica. La leggenda (che era realtà) di una fabbrica con grandi vetrate al posto delle pareti di mattoni (secondo la lezione di Le Corbusier) perché la luce del sole inondasse gli interni. Un’idea di fabbrica che Olivetti (attentissimo all’architettura) realizzò nella sede di Pozzuoli: «Di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno. La fabbrica fu quindi concepita alla misura dell’uomo, perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza». Dice Luca Zingaretti a proposito di Pozzuoli: «Olivetti amava il Sud. Diceva: “È gente vera che merita il meglio”. Sosteneva che all’unità politica dell’Italia non fosse seguita una unità morale. La fabbrica di Pozzuoli fu un successo produttivo, sfatando tanti luoghi comuni in vigore ancora oggi». Dice Michele Soavi: «Se è possibile definire una persona multiforme come Adriano Olivetti con una parola direi che era un paesaggista. Mia madre mi raccontava che lui si incantava a guardare una valle, una montagna, un bosco. Il rapporto con l’ambiente per lui era decisivo. Avvertiva fortissima la magia dei luoghi. A volte passando in macchina da un posto si fermava di colpo e scendeva a fare una passeggiata. Spesso dimenticava la portiera aperta e al ritorno trovava la batteria scarica. Mio nonno, grandissimo industriale, con le macchine non andava d’accordo. Per esempio, partiva sempre in terza. E non sapeva battere a macchina, lui, il leader mondiale del settore, scriveva con la stilografica». Un ricordo di famiglia, che Soavi ha riportato in una scena molto divertente in cui si vede Zingaretti che batte stentatamente una lettera con due dita, poi si snerva e prende un foglio di carta e una penna. Ma forse la leggenda (che era realtà) più forte di tutte fiorita attorno alla Olivetti fu quella della fabbrica piena di scrittori e di intellettuali che si chiamavano Geno Pampaloni (il grande critico letterario che fu segretario di Comunità, il movimento ideale fondato dall’imprenditore), Paolo Volponi (il grande scrittore di Memoriale e di Corporale che fu il capo del personale), Michele Ranchetti (storico della Chiesa e poeta che fu il segretario di Olivetti). Uomini che rimasero segnati tutta la vita da quell’uomo che rendeva concrete le idee. Nello Ajello, il giornalista recentemente scomparso e che fu uno di loro, ha scritto: «Sull’affluenza degli intellettuali in azienda, sotto Adriano, si è fatta molta letteratura. Non apparirà comunque retorica l’etichetta di ex olivettiani, di adrianèi della quale tanti si sono fregiati o a volte ancora si fregiano, riconoscendosi fra loro. In nome di una remota, contagiosa utopia». Concetto che Giorgio Soavi, lo scrittore padre di Michele, olivettiano della primissima ora, ha riassunto così: «Era come se, invece di camminare, volassimo a una ventina di centimetri dal suolo». Pensate che a un uomo del genere tutti non potessero che volere bene? Vi sbagliate. Adriano Olivetti ebbe molti nemici. Ne ebbe dentro l’azienda dove alcuni azionisti lo accusavano di fare beneficenza e non profitto. Ne ebbe (e tanti) tra i «colleghi » industriali che si sentivano minacciati dalla gestione «comunistica» della fabbrica (nonostante Olivetti raccomandasse continuamente di non confondere l’essere comunitarista con l’essere comunista). Anche i politici non lo amavano. Quelli di destra a causa della tradizione della famiglia. L’ingegnere Camillo, il padre di Adriano, fu grande amico di Filippo Turati, uno dei padri nobili del socialismo italiano. A sinistra il punto di vista era diametralmente opposto a quello della Confindustria: il fatto che Adriano si proclamasse comunitarista e non comunista ingenerava sospetti. E ai politici in genere non poteva piacere un industriale che non si prestava al sistema delle clientele. Le cose precipitarono quando Olivetti, stufo dei riti partitici e politici romani, fondò il suo movimento e decise di correre da solo. Fu una catastrofe. Commenta amaramente Luca Zingaretti: «Si vede che l’Italia è sempre stata uguale a se stessa. È un Paese in cui è difficile cambiare qualcosa. Ma Olivetti non poteva fare diversamente. Lui sosteneva che una fabbrica che funziona in un Paese che non funziona è inutile. È una battuta che pronuncio nel film ed è una delle più importanti per capire il pensiero di Olivetti». Spy story. Ma forse Adriano Olivetti sarebbe potuto sopravvivere ai politici, alle banche (che reclamavano i loro crediti), ai tranelli del mercato internazionale (solo dopo averla comprata scoprì che la Underwood era un pozzo di cui non si vedeva quasi il fondo di debiti), alla malevolenza (invidia?) degli altri industriali, se non si fosse avventurato nella sua impresa più alta: la costruzione del primo calcolatore elettronico al mondo, del primo computer. Qui la faccenda si faceva delicata. Racconta Michele Soavi: «Mio nonno era attenzionato dalla Cia sin dal 1957, l’epoca dell’Elea, il primo calcolatore elettronico, nato dagli studi del geniale scienziato italo-cinese Mario Tchou e di Roberto Olivetti, il figlio di Adriano. Roberto aveva convinto il padre, anche con l’aiuto di Enrico Fermi, che il futuro era l’informatica. La Cia, che non voleva concorrenza in un settore strategico e sensibile come quello dei computer, mise una spia alle costole di mio nonno». Nel flm questa storia è un’occasione d’oro per romanzare un po’. Racconta Franco Bernini, lo sceneggiatore: «Nella fction la spia è l’agente 519, Karen Bates che, precedentemente era stata un’aviatrice americana paracadutata in Italia al tempo della venuta degli Alleati e che proprio Olivetti aveva sottratto, nascondendola in casa, alle grinfe dei nazisti che le davano la caccia. È un’invenzione verosimile perché da giovane Adriano Olivetti aveva compiuto operazioni di questo genere aiutando Filippo Turati e la scrittrice Natalia Ginzburg a espatriare per sfuggire ai fascisti. L’agente 519 resta affascinata nel film dalla personalità di Olivetti al punto che la Cia la rimuove dall’incarico sostituendola con un altro agente». La svolta da spy story ha un convinto sostenitore anche in Luca Zingaretti: «C’era la Guerra Fredda e l’Italia era il Paese occidentale con il partito comunista più forte. Agli americani non stava bene che proprio un italiano sviluppasse il primo computer conquistando la leadership in un settore dalle potenzialità enormi ai danni della General Electric e dell’Ibm». L’incidente. Così nel flm si adombra uno scenario da caso Mattei, anche lì un italiano si muove con disinvoltura e intraprendenza in un campo, quello petrolifero, dove gli americani non tolleravano battitori liberi. Michele Soavi: «È un’ipotesi che ventiliamo anche sulla base di quello che è successo dopo. Morto Adriano, la Olivetti informatica fu acquistata dalla General Electric. E, pochi mesi dopo la morte di Adriano, morì in un incidente stradale, viaggiando una mattina verso Ivrea, anche Mario Tchou, lo scienziato che dirigeva il progetto e le cui intuizioni erano state fondamentali. Quell’incidente resta un mistero». Franco Bernini dice che documentandosi per scrivere la sceneggiatura è rimasto di sasso davanti a una dichiarazione di Vittorio Valletta, l’uomo che per anni fu il sergente di ferro della Fiat: «Valletta disse allora che il settore informatico della Olivetti era un neo da estirpare». Per svenderlo agli americani? Che strano modo di essere patrioti (e industriali). Il flm racconta anche il lato privato di Olivetti. Nel gossip dell’epoca teneva banco il rapporto tra Adriano e la prima moglie, Paola Levi, la sorella di Natalia Ginzburg. Lei ebbe tra i suoi amori gli scrittori Carlo Levi e Mario Tobino. Dice Luca Zingaretti: «Paola era una donna inquieta e lui la amava moltissimo. Io ho cercato di rendere con la mia recitazione le oscillazioni, le intermittenze del cuore della loro relazione non trascurando il fatto che anche lui era molto attratto da altre donne. Era un uomo che metteva la passione in tutto quello che faceva». Forse più che in altri momenti del flm è stato affrontando questo capitolo che Michele Soavi si è dovuto sdoppiare tra le esigenze registiche e il ricatto degli affetti: «Paola era bellissima, libera, indipendente e molto colta. Fu fondamentale per la formazione di Adriano che veniva da studi tecnici. Lei lo avvicinò alla letteratura, all’arte. La parte umanistica del suo progetto, preponderante in ciò che fece, deriva da Paola». A Paola, Soavi affida una delle scene più significative. «Lei, tornando dopo una lunga assenza, gli porta in dono un quadro. È L’Isola dei morti di Arnold Böcklin. Un dipinto di estrema enigmaticità (una versione appartenne anche a Hitler). Nel flm Olivetti appende il quadro nel suo ufficio. In realtà non c’era nessun quadro di Böcklin nell’ufficio di Adriano. È una mia invenzione, una licenza poetica. Un modo per dire che la vita di Adriano Olivetti è stata un sogno e L’Isola dei morti, di cui di solito si sottolinea l’atmosfera funerea, fu commissionata a Böcklin dalla regina Maria Cristina d’Austria con ben altra richiesta: “Mi faccia un quadro per sognare”. Ecco, mi è sembrato il regalo giusto da fare, nel flm, a mio nonno». (P.S. A proposito di omaggi, la prima stesura di questo pezzo è stata scritta con una macchina per scrivere Olivetti Lettera 22, ancora stupendamente funzionante). 10 ottobre 2013 (modifica il 11 ottobre 2013) © RIPRODUZIONE RISERVATA Antonio D’Orrico