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 2013  ottobre 28 Lunedì calendario

PERCHÉ SERVE LA SECONDA SOGLIA


Caro Direttore, il tentativo di acquisizione del controllo di Telecom Italia da parte di Telefonica de Espagna apre quattro problemi che coinvolgono anche Governo e Parlamento. Il primo è costituito dall’incapacità del capitalismo italiano di prendere in mano le grandi imprese quando l’azionista di riferimento passa la mano.

Da Parmalat a Loro Piana, da Ferretti a Marazzi, da Avio a Bulgari, da Gucci alla Terni, da Wind, Fastweb, Omnitel fino a Telecom Italia, un gran numero di aziende floride o risanabili è stato acquisito da soggetti esteri. E ora prepariamoci a Fiat che si fa Chrysler, a Pirelli, ad Armani, all’Ilva. In alcuni casi l’inserimento delle aziende italiane in gruppi multinazionali aggiunge valore, in parecchi casi lo distrugge. Quasi sempre toglie le funzioni strategiche e con esse i posti di lavoro più pregiati, connessi al quartier generale. Telefonica è il peggior azionista pensabile per Telecom e per il Paese nel quale Telecom gestisce un’infrastruttura strategica. Temo addirittura che, una volta spartita Tim Brasil, gli spagnoli lascino Telecom Italia ulteriormente indebolita al suo destino. Leggo infatti che Telefonica ha facoltà, non l’obbligo, di acquistare le azioni Telco ora in mano a Generali, Intesa Sanpaolo e Mediobanca, mentre i tre soci italiani non hanno uno speculare diritto di vendita agli spagnoli.
In altri tempi, un’Italia meno colta e ricca di oggi esprimeva tuttavia imprenditori in grado di gestire la complessità. Quell’Italia è finita negli anni ’80 con l’effimera stagione dei condottieri. I cervelli migliori, a cominciare da quelli della Banca d’Italia, s’illusero del contrario. Vennero le privatizzazioni cieche. E ora siamo alla denazionalizzazione del privato. Gli imitatori nostrani dei Tea Party se ne rallegrano. Per loro l’investitore estero è meglio a prescindere. Chi ha in mente il Paese, invece, dovrebbe preoccuparsi. Gli investimenti esteri che allargano la base produttiva devono essere attratti in tutti i modi. Ma questo impegno non esime la classe politica dal promuovere la fioritura di una più fresca classe imprenditoriale di nuovo capace di gestire la complessità sia attraverso una miglior regolazione del credito e nuove iniziative nell’ossificato settore bancario, sia attraverso una politica della concorrenza al passo con le tecnologie, sia infine attraverso l’intervento pubblico laddove non emergano alternative private.
Il secondo problema aperto dal caso Telefonica- Telecom, riguarda il mercato finanziario. Il passaggio del controllo avviene all’interno di una scatola cinese, la holding Telco. Tale procedura concentra un premio del 90% sulle quotazioni correnti delle azioni Telecom in mano a soggetti che, in trasparenza, detengono l’8% del capitale totale dell’ex monopolio delle telecomunicazioni e lascia tutti gli altri a bocca asciutta. Tra questi ’altri”, figurano investitori istituzionali esteri che detengono il 52% del capitale. Buon senso vorrebbe che la legge difendesse in via prioritaria chi mette 5,7 miliardi rispetto a chi, aggiungendo 850 milioni agli antichi esborsi, vorrebbe il comando su una società da 11 miliardi. Anzi, se vogliamo stare ai flussi finanziari netti da Paese a Paese, Telefonica mette sul piatto non più di 150 milioni (gli 850 promessi, a fronte di un vendorloandi 700 da parte di Intesa e Mediobanca). Questo contratto, che a me pare bruttino, è tuttavia legale. L’articolo 106 del Testo unico della finanza (Tuf), infatti, prevede che l’obbligo dell’Opa totalitaria si dia soltanto quando si superi il 30% dei diritti di voto (Telco ha il 22,4% del capitale ordinario, il 15% del capitale totale) ovvero quando cambi il controllo all’interno di una partecipazione tra il 30 e il 50%. Il governo ha accolto l’appello del Senato a introdurre in tempi brevi una seconda soglia per l’Opa obbligatoria, determinata dal controllo di fatto, esercitabile con partecipazioni inferiori al 30%. E’ la stessa regola che vale in Spagna, dove l’Enel ha sì comprato Endesa, ma con un’Opa totalitaria, per contanti e generosa.
Questa riforma, si obietta, avviene a partita in corso. Un’espressione generica. Più preciso sarebbe decidere se la riforma dell’Opa abbia o no effetti retroattivi. L’attribuzione dei diritti di proprietà alle nuove azioni Telco in mano a Telefonica avverrà solo dopo la risoluzione della partita brasiliana. Se si vuole, si può. L’argomento è ’friabile’ per l’ex commissario Consob Salvatore Bragantini, solido per il presidente della Consob Giuseppe Vegas. Il legislatore deve attenersi alla voce dell’istituzione, Vegas. Se Telefonica ritiene di aver maturato il diritto di avere Telecom senza Opa, ricorrerà al giudice e vedremo. Per il futuro avremo svuotato le scatole cinesi del premio di cui ora godono. Introducendo una seconda soglia d’Opa si rende più difficile il passaggio del controllo di fatto tra capitalisti avidi ovvero senza capitali. Questo è il terzo problema. Nel 1998, quando venne varato il Tuf, ci si limitò alla soglia unica del 30%. Una decisione sorretta dall’opinione (ideologica) che il cambio del controllo migliorasse la gestione aziendale. Ora taluni economisti e giuristi citano il favore che accordarono a quella decisione quasi fosse un dogma al di fuori del quale c’è solo l’errore. Peccato per loro. Fuori dal dogma c’è la storia dei danni fatti dal frenetico cambiamento di proprietà che in talune aziende, Telecom è tra queste, ha selezionato i peggiori.
Quarto problema. Alessandro Penati scrive che la riforma dell’Opa è la risposta sbagliata a un problema di governance: il destino di Tim Brasil verrebbe deciso dagli ammini-stratori nominati da Telco in conflitto di interessi. Ma se Telco, come è già avvenuto più volte, non applica le procedure per le decisioni tra parti correlate, che facciamo? Con un’Italia che sta perdendo la sua grande industria, il tempo delle prediche inutili è scaduto.

Massimo Mucchetti *
* Presidente della commissione Industria del Senato