Emanuela Audisio, la Repubblica 28/10/2013, 28 ottobre 2013
VALERIA ON THE ROAD
L’altra Italia: quella normale e straordinaria, quella che sfugge e fugge. Che studia, si sposa, fa i figli, lavora (precaria), va in gita in camper, e un bel giorno si mette alla testa del mondo e rinasce ad un’età in cui altre dicono addio. Sì: la vecchia nuova ricerca del tempo perduto, ma Proust non correva tra creature degli altopiani. L’altra Italia: troppo modesta, troppo vecchia, senza grilli per la testa. Quella che si confonde e vi confonde, che sa vivere tra le parentesi, senza abbassare il ritmo: venitemi dietro se ne siete capaci. Quella che non dovrebbe andare da nessuna parte, invece sogna, non si spaventa delle salite, dei rimpianti, delle ferite e ora sbarca per la sua prima volta a New York. L’unica medaglia (argento) azzurra ai mondiali di atletica di Mosca. Valeria Straneo, appunto: una mamma on the road e una maratoneta per caso, 37 anni, due figli, Leonardo, 7 anni e mezzo, Arianna, 6, un marito, Manlio. Una di quelle che arrivando dopo, si è goduta tutto il percorso. «C’è chi prima fa sport e poi mette a posto la vita. Io ho fatto il contrario. Laurea in lingue straniere con una tesi su Esercizi di stile di Raymond Queneau, viaggi di studio in Francia e in America, amore con Manlio, che conoscevo sin da piccola e che mi piace perché è gentile e rilassato, un po’ di sport qua e là, senza mai pensare seriamente a fare l’atleta. Le corse alla domenica per divertimento con figli a seguito e con la famiglia di Beatrice Brossa, che è diventata la mia allenatrice, sono dodici anni che ci conosciamo. Quando sento parlare di campioni nevrotici, alienati, pieni di dubbi amletici sul loro futuro, non mi ci ritrovo. I figli ti stancano, sono lì e ti restano per sempre, è una fatica organizzarli, ma non sono un ostacolo alla carriera, anzi ti liberano la testa, quando corri ti dici: sono serena, una famiglia ce l’ho. Anzi forse di figlio ne faccio un altro. Mentre chi ha scelto il professionismo, spesso s’interroga sui vuoti, si sente sacrificato in un ruolo troppo stretto, gli manca qualcosa. Io non ho scelto di fare l’atleta, mi ci sono trovata da turista e ne sono consapevole: la vita mi ha dato una possibilità, ringrazio, è tutto molto inaspettato, non durerà in eterno, so che finirà, ma io sono serena».
Non capita quasi mai di trovare atleti felici, in pace anche con quello che non hanno avuto. Valeria Straneo lo è. Fino al 2011 ha corso con una zavorra: la sua ma-lattia, la sferocitosi, un’anemia ereditaria che requisisce i globuli rossi e ti lascia sempre spossata. «Avevo gli occhi di fuori, non reggevo, con una milza di 26 cm e di 1,8 kg, ero sempre a pezzi, non riuscivo nemmeno ad infilarmi i pantaloni. Così con un’operazione me l’hanno tolta. Non è stato uno scherzo, ma si sono sentita dire da qualche avversaria che l’avevo fatto per migliorare le mie prestazioni. Quando sono tornata a correre ero un’altra, senza più freni, finalmente il mio motore ritrovava potenza, ma a 35 anni dovevo decidere: provarci per davvero o lasciare perdere? Io ero restia, mio marito mi ha consigliata: non condannarti al dubbio di chi potevi essere. Così ho lasciato il posto di maestra d’asilo e dopo aver accompagnato a scuola i miei figli mi sono messa a correre più di prima. Grazie anche alla mia coach che da sempre aveva visto in me una grande potenzialità mentre quelli della federazione, ancora li prendo in giro, appena vedevano la mia data di nascita mi scartavano».
Da infiltrata a una da non sottovalutare, anzi da ingaggiare (80 mila dollari). Quando le agenzie a Mosca riportano la notizia: Edna Kiplagat pulls away from Italy’s Valeria Straneo, tutti a dire: come, un’africana che per vincere deve staccarsi da un’italiana che è al comando da 40 chilometri, ma siamo sicuri? E subito a ironizzare sul gioco di parole: Straneo, ma vero. Valeria domenica esordisce alla maratona di New York. «Nel mondo se non l’hai corsa non sei nessuno. C’ero andata anche l’anno scorso, ma l’uragano Sandy l’ha fatta annullare. Ora ci riprovo, ricordo com’ero emozionata quando nel ‘98 vidi il trionfo di Franca Fiacconi, l’ultima italiana ad avere successo. Ho cambiato allenamento, mi sono imposta un ritmo a sprazzi, io ho una cadenza regolare, mi manca lo scatto, così ho portato degli accorgimenti. Certo ci sono le africane, ma l’anno scorso sono stata un mese in Kenya con Emma Quaglia, e ho capito cosa c’è dietro. Non la favola dell’altopiano, ma la fatica, la sofferenza. Loro non hanno niente e così la corsa diventa tutto, la molla che spinge il passo dell’Africa non è la magia, ma la necessità, devono mangiare, riscattarsi, mantenere la famiglia. Non hanno la playstation, la loro palestra è una strada sterrata all’aria aperta. Non ci vedi gioia, ma solo fatica, come andare davanti a cancelli Fiat negli anni Sessanta. Non sono invincibili le africane, sentono la pressione, devono portare a casa la pagnotta, mentre da noi se non vinci non muore nessuno. Io corro per passione, a nome di tutti i dilettanti che la domenica ci provano a trovare un altro orizzonte. E lo rivendico: la strada è di tutti».