Stefania Tamburello, Corriere della Sera 28/10/2013, 28 ottobre 2013
ADDIO AL CONTE BANCHIERE CHE ERA PARTITO DALLA PENICILLINA
Era sparito da tempo dalla scena finanziaria. Da quando, nel ‘95, aveva venduto, dopo essersi opposto per anni, la sua banca, la Bna, la Banca nazionale dell’Agricoltura, a quei tempi l’undicesimo istituto di credito del Paese e il primo facente capo a soci privati.
Giovanni Auletta Armenise si è spento a 82 anni il 25 ottobre ma solo ieri la famiglia ne ha dato notizia. Negli Anni Ottanta e nella prima metà dei Novanta è stato un personaggio di spicco nel mondo bancario per la sua gestione da padre-padrone della Bna, per la sua storia di banchiere e conte per diritto ereditario e per quella contraddizione, che colpiva chiunque lo incontrasse, tra il suo aspetto — un fisico massiccio più da proprietario terriero che da banchiere e la parlata fortemente dialettale romanesca — e la quantità di rapporti internazionali che intratteneva grazie alla sua appartenenza alla Trilateral.
Nato a Bari ma cresciuto, orfano di padre, a Genzano, vicino Roma, si era ritrovato a 22 anni erede della fortuna — un’azienda farmaceutica e di profumi, la Leo Penicillina e la Bna — dello zio, Giovanni Armenise, che aveva ricevuto titolo e banca con l’intercessione di Mussolini. Con in tasca la laurea in economia e commercio il giovane Giovanni, chiamato affettuosamente in famiglia e dagli amici Nino o Ninotto, era approdato alla banca dopo aver fatto, ma senza successo (la società alla fine era stata venduta a zero lire) l’imprenditore nella Leo Penicillina.
«Cosa era una banca lo capii solo molti anni più tardi» confessava, dopo essere diventato presidente della Bna, ai giornalisti che gli chiedevano di raccontare la sua storia. Lo aveva comunque capito bene, visto che la banca era cresciuta rapidamente arrivando ad una rete di 300 sportelli e 6.600 dipendenti. Cresciuta però troppo in relazione al capitale di cui disponeva, tanto da diventare una delle principali preoccupazioni della Vigilanza della Banca d’Italia che cominciò a fare pressioni sul conte perché trovasse un alleato importante in grado di mettere i soldi necessari allo sviluppo o perché vendesse la sua partecipazione ad un altro istituto forte. Erano gli anni della ristrutturazione bancaria, delle privatizzazioni e delle acquisizioni. Ma Auletta non voleva cedere il passo e solo dopo un lungo pressing si convinse, tra contrasti in famiglia e nel cda, a cedere la maggioranza della cassaforte, Bonifiche Siele a sua volta detentrice della quota di controllo della Bna, alla Banca di Roma di Pellegrino Capaldo e Cesare Geronzi allora vicini, come lui, a Giulio Andreotti. Per la Bna, l’addio del conte significò l’avvio di un lungo viaggio itinerante tra la Banca di Roma, l’Antonveneta ed infine il Monte dei Paschi di Siena.
Stefania Tamburello