Massimo Onofri, Il Sole 24 Ore 27/10/2013, 27 ottobre 2013
L’IDILLIO DI UNA VITA
Sfrontatezza e inattualità sin dal titolo, Idillio con cagnolino: se è lecito definire sfrontata una poesia, quella di Alba Donati, così gentile e arresa alla vita. Ne sottolineo, allora, l’inattualità: se è vero che il culto delle virtù pubbliche degli esordi – che le valsero nel 1998, con La repubblica contadina (1997), il Mondello Opera Prima – si sono spinte sino a questa scandalosa proposta d’idillio. Una verità, infatti, mi pare assodata: che non potrebbe mai darsi un pacificato quadretto agreste, secondo una codificata tradizione bucolica (un idillio appunto), nel tempo in cui è andata del tutto perduta persino l’idea di lex naturalis: che, come già credeva Ulpiano, consisterebbe in ciò che la Natura insegna a tutti gli animali («quod natura omnia animalia docuit») e prescritta da quella recta ratio che, secondo il Cicerone trascritto da Lattanzio, si dovrà ritenere «naturae congruens, diffusa in omnes, constans, sempiterna». Quell’idea di legge naturale che il Novecento nichilista ha seppellito chissà se definitivamente: là dove l’idillio letterario, quando è sopravvissuto, lo ha fatto modificandosi, compromettendosi e guastandosi. Penso agli idilli di Pascoli: attraversati da crepe paurose, assediati da una folla querula di morti che vuole essere ascoltata. O a quelli tersi e luminosi d’un poeta ingiustamente dimenticato come Diego Valeri: il quale, per tornare a celebrare la Natura, ha dovuto cancellare dai suoi paesaggi l’uomo, restituendocene l’assenza come dopo una catastrofe atomica.
E allora: che idillio è quello di Alba Donati? Credo che la risposta si trovi nel bellissimo componimento eponimo, là dove incontriamo la mamma e la figlia, «allineate nel lettone», che leggono mentre la luce, che filtra dalla finestra, «disegna sul piumone una trama imperfetta/di alberi e foglie». Sentite qua: «Tu con la tua risatina da bambina, io con la gioia./E tra noi, in fondo al letto, disteso a zampe in su/come chi guardasse il paradiso, il nostro cagnolino./Mai Courbet avrebbe potuto fare di meglio/nel celebrare l’idillio di una sera cittadina». Non posso non ricordare che Alba Donati è nata a Lucca: sicché mi è difficile non pensare, davanti alla beata creatura a zampe in su, al vivido cagnolino – che qui sembra come riprendere vita dal marmo – accucciato ai piedi di Ilaria del Carretto, nel monumento funebre di Jacopo della Quercia – caro a Pasolini –, che si trova nella cattedrale della città. Torno alla poesia: in cui quell’accenno a Courbet mi pare voglia indicare una tradizione, ancora fidente in una realtà non implosa, ormai arrivata al capolinea. Un accenno, insomma, che consegna l’idillio a una storia culturale finita per sempre: mentre la vita quotidiana familiare, nella sua nuda evidenza (è «gioia», qui, la parola chiave), in esatta coincidenza con se stessa, si riprende i suoi diritti, in una direzione che è quella dei sensi e dei sentimenti.
Che voglio dire? Che Donati è perfettamente consapevole delle macerie del secolo alle sue spalle e del fatto che nulla sarà più come prima. Non per niente il libro inizia con Fernando, in cui ci si chiede perché il vecchio zio, «arrivato a novantasei anni, dal suo letto/in cima al paese urli e chiami mamma». Per arrivare a una risposta perentoria: «Come se la vita non fosse accaduta./Come se costruirsi una personalità, fosse,/all’improvviso, un tempo perso, perché in verità//non volevamo che sostare e chiedere conforto». Mentre ci consegna come epilogo il Pianto sulla distruzione di Beslan, lo straziante poemetto, asciutto come un ossario, sulla strage in Ossezia di 186 bambini, provocata dai terroristi ceceni e dalle forze speciali russe. È una verità creaturale, in effetti, quella di Donati, e ancora molto novecentesca: nella convinzione che, tramontate tutte le fedi, ci restano solo le verità biologiche. Per esempio questa: che i vecchi e i bambini (ma anche gli animali), proprio perché più prossimi a quel luogo da cui proveniamo e dove torneremo, siano gli esseri più vicini al mistero della vita e, proprio per questo, i più oltraggiati dal mondo. Verità biologiche, ho detto: meglio se personali. Ecco perché Donati costruisce l’idillio a partire dalla figlia e dall’anziana madre, per farvi ruotare ogni cosa: «Mentre guardi la televisione/io guardo te, sul tuo viso scorre svelta/la luce dell’amicizia di Pooh e Pimpi/nei tuoi occhi fiammeggia il loro picnic». Per concludere così: «Io lo ammiro, questo schermo di fatti minuti/vi osservo le vicende del giorno/vi osservo le previsioni della tua anima/così semplice mi appare allora il globo terrestre/e io lo guardo e quello schermo che vedo/mi sembra sacro».
Siamo dentro poesia in cammino verso la prosa: per dirla con Berardinelli che di Donati è un convinto estimatore. Con tutti quegli ascendenti che ormai si trovano anche nell’indice dei nomi dei manuali, da Saba a Bertolucci, Sereni e Caproni, sino a Patrizia Cavalli. Ma Donati la spalanca con gratitudine, questa poesia, anche sulla prosa di certi grandi maestri del pensiero critico, come Cesare Garbali e Enzo Siciliano, cui sono rivolte alcune tra le più belle poesie della raccolta, ma non mancano all’appello nemmeno Baldacci, Bigongiari, Pampaloni, Garin, Luzi e Ranchetti: dentro un pantheon tutto fiorentino.
Una poesia di sensi e sentimenti, cui si va a raccordare una memoria che s’allunga sui tempi d’una consuetudine quotidiana prolungabile all’infinito, di modo che, in ogni giorno che passa, e mentre la vita respira, niente vada perduto, tutto sia goduto, sino all’ultimo istante. Ecco: «Ci sono rade luci sulla collina,/e c’è un tempo millenario intorno,/che ci raccoglie. Tutto ruota intorno alla cena,/al gesto di mettere tavola, versare le pietanze». Non lo dobbiamo dimenticare mai: «Questo è il nostro tempo insieme,/queste le nostre vacanze estive./Tra un piatto e un altro mi accarezzi/e dici che potrebbe essere l’ultimo giorno».