Raffaele Nigro, Corriere della Sera La Lettura 27/10/2013, 27 ottobre 2013
IN ALBANIA A 200 KM L’ORA
Una piccola folla di passeggeri è incolonnata ai controlli di sicurezza dove ormai la polizia accetta dagli italiani soltanto le carte d’identità. Gli albanesi vogliono sentirsi europei e aspettano la ratifica di una realtà di fatto: l’appartenenza dell’Albania all’Unione europea. Lo aveva promesso Sali Berisha al suo popolo, anche se non è riuscito a ottenerla. Troppo insicuri il territorio e l’incolumità individuale, aleatorio il rispetto del diritto, delle parità sociali, un codice della strada inesistente, ancora forte il kanun , la legge patriarcale che condanna le donne alla disparità.
Individuo la stazza e i capelli mossi del mio amico Fatmir Toçi, è al bar. Editore, forse il maggiore d’Albania, ha guardato alla Feltrinelli e ha aperto una catena di librerie con il suo marchio: «Toena», a Tirana, Saranda, Valona, Pristina, Salonicco, poi ha affidato alla moglie Irena la direzione editoriale e si è dato alla politica, nelle fila del Partito Socialista. Cinque anni di opposizione, con uno sciopero della fame un anno fa per strappare a Berisha un assenso al voto degli emigrati. Senza successo. Non lo vedo da maggio,quando è venuto in Puglia per parlare ai connazionali emigrati. Vi ha trovato oltre trentamila albanesi. L’ho seguito a Bari, Altamura, Noicattaro, mentre spiegava che votare dall’Italia, per chi lavora qui, è un diritto, che gli emigrati hanno contribuito al miglioramento dell’Albania e tocca loro un riconoscimento pensionistico per gli anni di lavoro. Fatmir è stato nuovamente eletto, nel collegio elettorale di Valona.
Proprio l’aeroporto è stato ricostruito con le rimesse degli emigrati, oltre agli aiuti americani, austriaci e franco-tedeschi e persino con i fondi arrivati dagli Emirati Arabi, che hanno investito anche nella ricostruzione di ospedali e moschee. Tirana è un crogiuolo di fedi; nelle piazze, ai suoni delle campane cattoliche e ortodosse risponde il canto del muezzin amplificato dagli altoparlanti. Fatmir mi mostra la modernità dell’aeroporto, i caffè, i negozi di suppellettili. Ricordo il mio primo arrivo a Rinas, nel 1990. Mi accolse un orrendo hangar di cemento, in una folla di divise della Segurimi , nessun passeggero. Fuori ad attendermi c’era una Mercedes di Stato, accanto a una corriera di linea e a due o tre camion di produzione cinese, su uno sterrato protetto da un reticolato. Oggi l’asfalto a quattro corsie che collega Rinas a Tirana è popolato di Suv giapponesi, Bmw e Mercedes, da poche Fiat e qualche auto francese. Un traffico che dà un’immagine falsata della ricchezza del Paese. Secondo Fatmir c’è grande movimento nell’economia, gli albanesi hanno coperto quattro secoli di ritardi in vent’anni, ma ci sono molti debiti, soldi sporchi e soprattutto rimesse di emigranti.
Non lasci l’aeroporto che ti salutano le mani giunte di una Madre Teresa di Calcutta stilizzata e gigantesca. A lei, la suora kossovara nata in Macedonia, l’Albania si riconosce devota e affida oggi la propria immagine di Paese in cerca di modernità. La sua statua ha sostituito quelle di Lenin, Stalin ed Enver Hoxha. Ci inerpichiamo verso Kruja, la città di Scanderbeg, diretti al bazar turco in cerca di souvenir. I pochi rivenditori di un tempo sono stati sostituiti da rigattieri che hanno smesso di vendere unicamente quaderni e libri scolastici di fabbricazione cinese. Non trovi più i libretti rossi di Enver Hoxha che fino al 1991 erano i soli oggetti in vendita nei chioschi, il vangelo socialista di marca maoista che il dittatore aveva progettato per l’Albania: povertà egualitaria, casa e lavoro per tutti, scelta economica rurale, autarchia, lavoro di fabbrica e di miniera, modello di vita antiborghese e sistema di polizia. Il Partito del lavoro su cui avevano scritto i grandi poeti e narratori del tempo, Dritëro Agolli e Ismail Kadaré. Rrofte shoku Enver Hoxha , viva il compagno Enver, diceva la propaganda per strada. Mentre le carceri traboccavano di dissidenti.
A partire dalle fughe del 1991 qui tutto è mutato, con rapidità. Sono frequentati bar, pizzerie, negozi. Anche in provincia le donne cominciano ad andare ai caffè, vestono shorts e minigonne, mentre le rom — sempre povere per tradizione e costrizione — le ritrovi a pulire le strade. Accanto a molte testate albanesi, perché qui si legge ancora abbastanza e sono molte le case editrici e molti i traduttori e gli scrittori, le edicole hanno giornali teletrasmessi stranieri e i monitor sparano immagini arabe, francesi, italiane e tedesche, rock e techno delle radio italiane, radio Capital, Rtl e Radionorba, rivaleggiano con le musiche tradizionali schipetare che fanno breccia ormai solo tra gli anziani. Gli albanesi si sentono europei, hanno sempre guardato a Roma e Parigi e oggi a Berlino e New York. Lo ha promesso Edi Rama, il nuovo presidente del Consiglio.
Da Kruja saliamo a Lezha, anche questa città capitale del tempo di Scanderbeg. Qui l’eroe fu sepolto nel 1467, alla sua morte avvenuta per malaria, e il suo mausoleo è ospitato tra i resti murari di una cattedrale devastata da Hoxha per ira anticattolica. Fatmir Toçi vuole salutare i compagni di partito. Ne ha dappertutto. Qui è un primario pediatra dell’ospedale di Lezha che ci attende in compagnia della moglie nella campagna di Zadriomora e ci scorta al Mrizi i zanave , il «Posto delle fate», un agriturismo che prende nome da una raccolta di versi del poeta Giorgio Fishta. «Questa era una zona paludosa, è stata bonificata e oggi produciamo raki da uva, cornioli e more», spiega il proprietario, Altin Prenga. È lui la nuova Albania. La faccia nuova di un Paese che fino a vent’anni fa non praticava produzione privata e vietava il turismo.
Ci vogliono cinquanta chilometri per Scutari. Qui l’influsso veneto ha lasciato una parlata che chiamano gheghi e che non sentiremo a sud, dove la vicinanza del greco ha prodotto il dialetto tosco. Nel pomeriggio partiamo verso Durazzo, sulla costa adriatica, le auto filano a duecento all’ora su asfalti sbreccati. Un traffico intenso e pazzo che gioca al tiro al bersaglio sui pedoni e sulle vacche in libero transito e tratta le auto come giocattoli furiosi. La città è una periferia infinita, bancarelle di indumenti per il mare ai lati della strada, alberghi ciclopici e condomini elevati sulla battigia, a pochi metri dal mare.
Il tempo di salutare e di partire per il Sud, diretti a Valona, lungo la strada consolare, prosecuzione della Traiana pugliese, che lambiva da età romana la costa. La città è ricca di verde, come lo è Tirana, la capitale più verde d’Europa, mentre il lungomare è popolato di palme. Ma la sensazione è di un cantiere aperto. Tutta l’Albania è un cantiere immenso e frenetico: ristoranti, condomini, strade, quartieri, stabilimenti balneari non sono mai rifiniti e sanno sempre di provvisorio, di abbandono perenne. Frenetici nell’edificare ma incapaci di manutenzione. In un ristorante di Valona un gruppo di cantori popolari ci aspetta per festeggiare il deputato Toçi e lo scrittore italiano. Intonano subito rapsodie antiche e ci offrono un lombo di pecora fredda, le cosce con il tradizionale onore della coda ritta. Per rispetto e augurio.
Dormire si dorme a Llogara, a mille metri di altezza. Il freddo qui cancella l’afa della marina. In pochi anni, cresciuti chalet e resort ai margini della strada i contadini vendono miele e spezie. Gezim Capo, sindaco del paese e proprietario del resort, ci aspetta per festeggiare l’uomo che ha appoggiato in politica. Spera di trarne qualche vantaggio. Perché qui, in modo macroscopico rispetto per esempio all’Italia, il vincitore in politica si porta i suoi uomini. Un cambio radicale. I vecchi occupati vengono mandati a spasso e coltivano odî.
Ridiscendiamo a mare. Mi spaurano le strade a picco che si precipitano dai Balcani calvi di Acrocheronne nello Ionio, un mare azzurro e bordato dagli arenili di ciottoli e da sparuti stabilimenti balneari. Pranziamo a Livadh, ospiti di Argile Bollano, gestore sorridente ma taciturno di un grande lido. Ha organizzato un giro sullo scafo per mostrarci lo smeraldo del suo mare. D’inverno, Argile è ispettore ai servizi del municipio, d’estate fa l’imprenditore balneare. I suoi avi erano italiani, scampati forse nel ‘600 a un naufragio e trapiantati qui. Mangiamo insalata greca, frittura di calamari, tzatziki e anguria. Un accordo non scritto con i marinai pugliesi, ci spiega, stabilisce che gli albanesi peschino pesce e datteri di mare e poi li vendano agli italiani, che rivenderanno al mercato d’Italia dove il pesce è finito e i datteri sono merce proibita. I bagnanti che vedi se non sono albanesi sono bulgari e polacchi. «Gli europei ci immaginano con le valigie in mano, straccioni e tutti profughi sui barconi», dice Bollano. «E questo non attira il turista».
Nella parte alta svetta Himara, con il castello e la muraglia di Alì Pashè Tepelena. Da Himara affrontiamo una via sterrata che costeggia gli strapiombi dei Balcani e arranca verso l’interno. Undici chilometri d’inferno stradale, con il fuoristrada che potrebbe volare nel precipizio a ogni metro. La strada la scavò Fatmir con un centinaio di studenti socialisti. Anche qui siamo attesi dai settecento abitanti di un villaggio di pastori che sarebbero fuori dal mondo civile senza questo sterrato. Berisha ha migliorato la situazione stradale del Nord, area di sua pertinenza elettorale e ha dimenticato il Sud, dove l’elettorato socialista non lo ama. Ma qui i pastori non riescono a far arrivare i prodotti in città o a raggiungere gli ospedali per mancanza di strade. Le case sparse di Kuç si arrampicano con le capre ai fianchi delle montagne, c’è nell’aria odore di letame e di origano.
Da Kuç, come Dio vuole scendiamo a Borsh e torniamo alla modernità. Prendiamo un caffè in un bar straordinariamente scenografico. Ha il retrobottega seduto su un torrente, tavoli e sedie sistemati sui rivoli d’acqua, appoggiati sul fianco di un’alta scarpata al cui centro precipita un salto d’acqua. Il torrente si ritrova poi in un invaso che si versa in mare. Da qui partirono gli arberesh che a San Marzano di Taranto fabbricarono e imbottigliarono più tardi il liquore.
Procediamo aggrappati alla costa fino a Saranda, città bella per un lungomare vivace e ricco di negozi e per una roccaforte che sovrasta l’arco del golfo in cima a un colle di pietra bianca. Anche il nostro hotel Panorama è in meravigliosa posizione d’altura sul golfo; ne è proprietario un neoricco, che aspetta aiuti dal nuovo governo. Rudina invece gestisce una libreria «Toena». È molto affettuosa e gentile, ci offre caffè turco, dolciumi e souvenir. È proprio un’altra Albania. Ero arrivato nel 1990 nel cuore del sistema comunista, avevo avuto un impatto devastante con la gente, muta e guardinga, i negozi vuoti, le macellerie a cielo aperto gremite di mosche, la paura di esprimersi degli amici giornalisti e scrittori, Besnik Mustafaj, Pirro Misha, Dashnor Kokonozi, Diana Çuli, poche auto, pochi camion, tante bici venute dalla Cina. Oggi è tornata la vita e i ristoranti sono affollati. Ci sono stabilimenti balneari con scooter acquatici e svaghi. Il verde smeraldo del mare disegna tratti di paradiso incontaminato. Il verde smeraldo che tuttavia qua e là viene ingannato da un’acqua che scopro oleosa. Perché un patto scellerato permette ai traghetti e alle petroliere di passaggio di sversare liquami nel mare albanese.
Sotto un sole assassino visitiamo Butrinto, una Pompei stratificata. Le cicale ci assordano e la giovane guida che ha studiato archeologia in Italia si affanna a raccontarci la sovrapposizione di culture, partendo da quella illirica. Ma c’è molto da scavare. Qui non finiscono le sorprese dei ritrovamenti, perché solo nel 2005 un gruppo di archeologi bolognesi recuperò una statua romana di marmo.
Ma occorrerà affrontare prima o poi la parte centrale dell’insediamento, la città degli illiri. Seguendo il Drinos proseguiamo per Korça. Il fiume fa un lungo giro e tocca di nuovo Valona. A noi intanto si è aggiunto Albert, un vecchio compagno di Fatmir. Nel 1991, mi racconta, comandava una nave militare che si ammutinò. Sbarcato a Brindisi trovò lavoro nella siderurgia. Nel 2007 torna in patria e apre un’azienda di infissi in alluminio e anticorodal per un Paese dove l’edilizia è in ascesa. «Devo tutto all’Italia — dice —, al mio datore di lavoro, ma chiunque voglia imparare un mestiere deve passare di lì, vivere in Italia per almeno cinque anni».
Ho deciso per Korça, chiamato dal museo delle icone. Vi sono state radunate migliaia di opere sottratte alla furia iconoclasta di Hoxha. Sei secoli di storia dell’arte pittorica che partono dal Trecento e toccano i rinascimentali Onufri e il figlio Nikolla e le scuole sei e settecentesche di Albania e Grecia. Un patrimonio incalcolabile che chiede una catalogazione e mostre internazionali. Ma non manco di toccare Voskopoje, undici chilometri da qui, dove si conservano intatti i monasteri di San Giovanni, del XII secolo, e San Nicola, che è del XVIII. Sono in abbandono totale, con iconostasi ricchissime e volte interamente affrescate con scene di vita e di miracoli dei santi. Cadono a pezzi gli intonaci e non riesci a capire cosa sia prioritario in questo Paese, se il salvataggio dei beni architettonici o l’apertura e la pavimentazione delle strade. L’unica via del borgo infatti è sterrata. Ci accoglie nel patio della sua casa papas Thomas, un uomo buffo, con codino e pizzetto, un prete ortodosso che ci descrive la vita del posto, l’abbandono delle chiese. Spera che il governo intervenga.
Lambendo il lago di Ocrida e la città fortificata di Elbasan ritorno a Tirana. Un lungo tunnel ha finalmente dimezzato la distanza dalla città turca alla capitale. Tirana è vuota e l’immensa piazza Scanderbeg, nonostante stia fiorendo tutt’intorno una foresta di grattacieli, è ancora un museo di edilizia fascista. Qui sono scese in vent’anni almeno cinquecentomila persone dalle campagne settentrionali e la città è salita a un milione di abitanti, si è allargata sulle coline circostanti, sta aspettando che vengano sistemate strade e fognature. Cresce vertiginosamente. Dall’ultimo piano del palazzo della Coin mi appare una città punteggiata di cantieri, di edifici ipermoderni, di lunghe file di platani e olmi e di condomini fatiscenti appoggiati in una corona di montagne brulle. Niente di antico, se non qualche ciottolato, la traccia di un castello, un ponte a schiena d’asino. Dal vecchio Blloku, il quartiere della nomenclatura e di Hoxha, vengono le musiche ossessive dei pub e delle discoteche che spiegano come il cuore dei giovani guardi oggi a Parigi, Berlino e Copenaghen, con un desiderio di vitalità notturna e di sballo, per sentirsi corpo e anima nella modernità.