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 2013  ottobre 27 Domenica calendario

INDIA , LA DEMOCRAZIA SGHEMBA CHE NON DOBBIAMO FAR FALLIRE


Il meraviglioso dell’India è che sfida la legge di gravità. Vi succedono cose che le teorie non ammettono. John Stuart Mill sarebbe stupefatto nello scoprire che un Paese così radicalmente frammentato per etnie, religioni, comunità, lingue riesce a restare democratico. Una nazione di un miliardo e duecento milioni di persone, con un reddito pro capite di 1.489 dollari l’anno e un terzo di poveri sotto il dollaro al giorno, secondo molti libri non potrebbe rimanere una democrazia per molto tempo: prima o poi, il meccanismo si dovrebbe rompere. E in nessun’altra parte del mondo 160 milioni di musulmani vivono in un sistema democratico da quasi sette decenni. È la faccia gloriosa dell’India, la sua eccezionalità. Non è però un dono delle divinità. L’apertura, la tolleranza, la libertà possono sempre fallire. Ancora oggi. Il problema è che il futuro dell’India è maledettamene importante: per il pianeta tutto, non solo per l’oceano dei monsoni e dei commerci che la circonda.
L’India di oggi è il più grande esperimento democratico dalle rivoluzioni americana e francese. Per dimensioni e possibile influenza globale forse ancora maggiore: è il gigantesco laboratorio nel quale si decide se la democrazia può sopravvivere in un Paese povero, del Terzo Mondo. Ancora di più: se ce la fa l’India a difendere le sue libertà e a togliere dalla povertà i milioni che ancora vivono nella miseria, allora ce la possono fare tutti. E non necessariamente seguendo il modello autoritario cinese che sta facendo proseliti sulle ali del proprio successo economico. L’India ha una rilevanza planetaria e dovrebbe essere nei nostri cuori. Certe volte è orribile: nella violenza, nel disprezzo per le donne, nell’arroganza del potere e dei super-ricchi, nella corruzione. Ma la sua lotta titanica è importante per il futuro mondiale della democrazia e della guerra alla miseria.

Amartya Sen ha spiegato a lungo che la democrazia indiana non è l’importazione di quella occidentale. Le elezioni sì, ma quelle sono la forma. Quando, dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna del 1947, si discusse la Costituzione federale — adottata alla fine del 1949 ed entrata in vigore all’inizio del 1950 — Jawaharlal Nehru insistette sulle tradizioni di dibattito aperto e di tolleranza intrinseche alla storia indiana e sul pluralismo dei codici politici di Ashoka — imperatore del subcontinente oltre due secoli prima di Cristo — e di Akbar, Gran Mogol del Cinquecento. «Quando negli anni Novanta del XVI secolo — scrive Sen — il grande imperatore Moghul, Akbar, con la sua fiducia nel pluralismo e nella funzione costruttiva delle discussioni pubbliche, proclamava in India la necessità della tolleranza e si impegnava a favorire il dialogo tra genti di fede diversa (compresi indù, musulmani, cristiani, parsi, jainisti e persino atei), in Europa c’era ancora una severissima inquisizione. Giordano Bruno fu condannato al rogo per eresia e bruciato a Roma in Campo de’ Fiori nel 1600, proprio mentre Akbar parlava di tolleranza ad Agra».
In India sono nati l’induismo, il buddismo, il jainismo e il sikhismo. Cristiani, ebrei, zoroastriani ci vivono pacificamente da secoli. Il Dalai Lama l’ha scelta come residenza dopo avere lasciato il Tibet. Tra musulmani e indù scoppiano di tanto in tanto conflitti che finiscono in bagni di sangue, ma la convivenza è la norma. Il Paese è in stragrande maggioranza indù ma dall’indipendenza ha eletto tre presidenti musulmani, oggi ha un primo ministro sikh, Manmohan Singh, e la personalità più potente del Paese è una cattolica piemontese, Sonia Gandhi. L’immenso poeta di Calcutta Rabindranath Tagore — il Tolstoj dell’India, premio Nobel per la Letteratura nel 1913 — criticava il nazionalismo («È un falso Dio. È un anestetico») e armonizzava le culture indù, islamica, persiana, britannica. Cercava un luogo «dove la conoscenza è libera; dove il mondo non è stato spezzettato in frammenti da ristretti muri domestici». Apertura, confronto, tolleranza non sono prodotti d’importazione in India. Sono pratica autoctona e antica. Hanno basi formidabili. Fanno essere ottimisti.
Niente, però, è mai scontato. Nuvole monsoniche si addensano sul Paese, sulla sua economia e sulla sua democrazia, da un po’ di tempo. Il governo in carica, guidato dal Partito del Congresso della dinastia Nehru-Gandhi, dal 2009 è praticamente immobile, non fa quasi niente. Gli scandali scoppiano a ripetizione: prima il flop organizzativo dei giochi del Commonwealth, poi le tangenti nella distribuzione delle licenze telefoniche 2G, in seguito miliardi persi dalle casse dello Stato a causa delle regalie in occasione delle concessioni per i diritti di sfruttamento delle miniere di carbone. Un movimento popolare contro la corruzione, guidato dall’attivista Anna Hazare nel 2011, è sato snobbato dal governo. Il risultato è che i sondaggi registrano percentuali preoccupanti di giovani che vorrebbero un uomo forte, anche un dittatore, al potere.
Le riforme di liberalizzazione economica, indispensabili dopo che quelle di inizio anni Novanta hanno svolto il loro compito ma non bastano più, non si vedono, nonostante il premier Singh sia considerato un innovatore. L’esito è una crescita che da quasi il 10 per cento l’anno è crollata a meno del 5. Un livello insufficiente per togliere dalla povertà i milioni di disperati: povertà che si porta dietro violenza quotidiana, abusi sessuali, intolleranze di casta.

Il Partito del Congresso ha dominato sin dall’indipendenza: con Nehru, con la figlia Indira Gandhi, con il figlio di questa Rajiv, oggi con Sonia e con colui che dovrebbe essere il futuro leader, Rahul Gandhi. Dopo i grandi meriti acquisiti nella formazione dello Stato indipendente, però, il partito oggi è inadeguato a guidare un Paese che vorrebbe essere un po’ più ricco: il populismo assistenziale è ancora la sua cifra più significativa. Il nepotismo dinastico del Congresso, poi, è antistorico in una nazione pienamente inserita nell’economia globale, tra le più giovani del mondo, dove l’istruzione non ha raggiunto tutti, ma in ampie fasce della società tocca livelli elevatissimi. Dall’altra parte, il maggiore partito di opposizione, il nazionalista Bharatiya Janata Party, Bjp, ha trovato un leader di grande carisma, ma controverso, da presentare alle elezioni nazionali dell’anno prossimo, Narendra Modi. Modi ha ottenuto successi da ministro-capo dello Stato del Gujarat. Si porta però dietro l’accusa di avere permesso, se non ispirato, le violenze tra indù e musulmani che nel suo Stato provocarono, nel 2002, migliaia di morti.
Non solo. Spesso libri e film vengono censurati: più che altro per compiacere qualche partito locale con radici etniche che vuole accrescere i consensi nella sua comunità su qualche tema caldo. Si impongono limiti alle organizzazioni non governative. Capita che ai giornalisti esteri non venga dato il visto di lavoro, senza spiegazioni. Di frequente, alle Nazioni Unite New Delhi si allinea nelle votazioni ai Paesi più illiberali. Gli stupri sono di recente diventati un tema di mobilitazione pubblica, ma hanno anche fornito la scusa per ciniche richieste di rapide pene di morte, non solo per gli stupratori. La burocrazia è inutilmente pervasiva e il sistema giudiziario spesso suscettibile all’influenza politica, come si è visto nella gestione del caso dei due marò italiani.
Su tutte queste contraddizioni — già non poca cosa — si stende la rivalità, nazionale e spirituale, con Pechino. Un’ossessione, per le classi dirigenti indiane. La Cina cresce molto più in fretta, riesce a realizzare i progetti in un decimo del tempo rispetto all’India, ha una reputazione internazionale più forte, è membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Sistema autoritario contro sistema democratico: anche a Delhi qualcuno vorrebbe un po’ meno di chiacchiere e più decisionismo. Probabilmente questo sarà il conflitto tra modelli del secolo. Amartya Sen prevede che vincerà la democrazia. L’India, nota, è stata regolarmente colpita da carestie: fino al 1947, però; dopo, grazie al controllo popolare sul governo, non ne ha più sofferto. Il regime comunista cinese, invece, ha provocato la più grande carestia della storia, tra i 20 e i 30 milioni di morti con il Grande balzo di fine anni Cinquanta. È in questa discussione, su questo crinale indo-cinese che si gioca un pezzo del futuro del mondo. Se l’India vincerà la povertà e conserverà la sua anima democratica, sarà migliore, molto migliore del passato.