Gianluca Veneziani, Libero 27/10/2013, 27 ottobre 2013
«NE HO UCCISI 1600 COL MOUSE» I TORMENTI DEL PILOTA DI DRONI
L’aspetto più doloroso ma anche più umano di un’uccisione di guerra deve essere il momento in cui osservi la tua vittima in faccia, in cui le comunichi «Guarda, sono io che ti ho ammazzato». Allora il carnefice diventa una cosa sola con la sua vittima, il vinto riconosce il vincitore e la sua vittoria.
Con il crescere della tecnologia, la guerra ha guadagnato in precisione, acuendo tuttavia la distanza tra l’uccisore e l’ucciso. Prima il lancio di bombe, quindi la guerra aerea, infine le stragi telecomandate con l’uso dei droni, gli aerei senza pilota. Se il terrorismo è anonimo, non ha volto né nome, la guerra coi droni è altrettanto anonima e impersonale. E per questo tanto più disumana.
Ne sa qualcosa e ha deciso di raccontarlo alla stampa mondiale Brandon Bryant, ex soldato di 27 anni dell’US Air Force, che nel 2006 ha deciso di arruolarsi, attratto dall’idea di difendere vite umane dalla minaccia terroristica. Ma il destino aveva tracciato una storia diversa per lui. Scartato dal test per diventare pilota, era stato assunto come sensor, uno di quegli uomini che hanno il compito di schiacciare un pulsante e ordinare a un drone di sganciare missili, nel momento in cui un obiettivo sensibile viene individuato.
Brandon svolgeva il suo lavoro direttamente dagli Usa, all’interno di una stanza buia e maleodorante di sigarette nel cuore del deserto del Nevada: era il centro operativo dei piloti di droni dell’Air Force. Con al fianco un navigatore che conduceva il drone fino al luogo richiesto, Brandon mirava il bersaglio e «sparava », eseguendo gli ordini arrivati dai vertici. Al segnale «They are insurgents » (Sono ribelli) o «They got weapons» (Hanno armi), lui obbediva. E i missili venivano fuori dal carrello, come vuole il gergo militare. Si compieva allora la strage.
Al giornale GQ America l’ex militare dell’Air Force ha voluto raccontare il suo primo «assassinio freddo». «C’erano nel monitor tre uomini che sembravano pastori», dice. «Il paesaggio era lunare, tipico dell’Afghanistan. Sullo schermo tutto appariva nero e solo i tre obiettivi erano identificati col bianco, rischiarati dalla luce a infrarossi. Dopo che mi giunse il segnale “Hanno armi”, una macchia bianca più grande comparve sullo schermo e dei pastori restarono soltanto brandelli». Brandon ha ancora ben presente il trauma della post-uccisione, l’obbligo di dover assistere all’agonia di quei bersagli umani, per poter comunicare ai superiori che gli obiettivi erano davvero stati colpiti. E che erano davvero dei terroristi. Anche se non sempre era vero.
Il più grande rimorso della sua carriera di cecchino è l’assassinio di un bambino che lui credeva un terrorista. «Dovevo colpire un ribelle talebano o un affiliato di Al Qaeda», ricorda. «Ma, una volta ricevuto il comando, mi accorsi che si trattava di un bimbo. Lo sapevo anche mentre spingevo il pulsante. Eppure i miei comandanti, per rassicurarmi, mi dicevano: “È un cane”. Una menzogna. Oggi, di quel bambino, ricordo ancora il fantasma a infrarossi».
La disumanizzazione della morte, accresciuta dalla tecnologia, comporta anche un abbrutimento del carnefice, una sua alienazione. Davanti al «videogame» dei droni, infatti, mentre gli spazi si accorciano, il tempo si sospende e diventa eterno. «Passavo le mie giornate», continua Bryant, «davanti al monitor in attesa di scovare un obiettivo da colpire. Scrutavo nelle vite degli altri, nella loro intimità. E, per ingannare le ore, leggevo romanzi distopici o libri di guerre elettroniche. Ero entrato nella parte. Mi sembrava di giocare a “World of warcraft” o a“Dudgeons and Dragons”».
Poi però Bryant ha deciso di smettere. Colpito da uno stato d’ansia cronico, non riusciva più a svolgere bene il proprio lavoro, e soprattutto non riusciva più a giustificarselo. Si è ritirato dal reparto dei “sensors”con una buonauscita di 209mila dollari e un enorme fardello sulla coscienza: aveva ucciso 1626 persone. Per riscattare quel conteggio macabro, Brandon ha provato ad arruolarsi tra i riservisti dell’aeronautica, incaricati di prestare soccorso ai feriti. Voleva salvare vite umane, dopo averne uccise tantissime. Ma anche lì è durato poco. Così si è rifugiato a Missoula, il suo paese natio in Montana, afflitto da tentazioni suicide. L’unico modo per uscirne era dire tutta la verità ai giornali. Prima lo Spiegel, poi il Daily Mail, infine GQ. Brandon ha voluto comunicare al mondo cosa sono in realtà ai droni, i cosiddetti «angeli del cielo». E ha voluto testimoniare quanto spesso siano errati i suoi obiettivi. Sebbene Barack Obama abbia detto di voler ridurre il loro uso, entro il 2025 è probabile che essi daranno lavoro a ben 100mila persone, per un giro d’affari complessivo di 82 miliardi di dollari. Roba da far impallidire anche un premio Nobel per la Pace.