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 2013  ottobre 27 Domenica calendario

“NESSUNA PROVA DI RAPIMENTI E SEQUESTRI MA IL COMMERCIO C’È”


Il dottor Alessandro Nanni Costa è il direttore del Centro Nazionale Trapianti nonché responsabile dell’analogo Centro del Consiglio d’Europa. Convive con il diffondersi ricorrente di storie da incubo. Ogni volta è costretto a ripetersi: «È una leggenda metropolitana la storia di bambini o di adulti uccisi per usarne i pezzi anatomici. È impossibile tecnicamente». Sì, perché la storia di Frankenstein è letteratura dell’Ottocento. La chirurgia d’oggi insegna che nessuno, specie se ricco e spregiudicato, rischierebbe una crisi di rigetto. Per i trapianti occorrono camere sterili, liste d’attesa, équipe sofisticate, esami di laboratorio... Altra cosa, però, è il commercio di trapianti. Qui il dottore alza le braccia: «Anche se per noi italiani, e da qualche anno anche per il Trattato di Instanbul, non è etico un donatore a rimborso, la legge di molti Paesi ancora lo permette».
L’elenco è lungo: Sudafrica, Pakistan e Iran sono i maggiori. Un tempo si usava nelle Filippine, ora non più. La pratica del donatore a rimborso, cioè da vivente a vivente, inevitabilmente comporta l’esistenza di un soggetto debole (a volte debolissimo, vedi i condannati a morte in Cina) e un soggetto forte. E il debole soccombe. Ma quello che accade in molti Paesi del Terzo Mondo, in Europa sarebbe impensabile.
In Italia, secondo il Centro, nessun malato è mai ricorso a donazioni a pagamento. «Abbiamo fatto un meticoloso screening su 12 mila persone, tutte quelle entrate o uscite dalla lista d’attesa per il trapianto di fegato in due anni. Li abbiamo interpellati uno per uno. Nessuno di loro è uscito dalla lista per motivi sospetti. Possiamo affermare quindi con certezza che in Italia la pratica del donatore a pagamento non ha mai trovato spazio».
In Europa, però, almeno un caso sospetto c’è. Nel Kosovo del Dopoguerra, a Pristina, in una clinica fuori controllo, pare si siano effettuati diversi trapianti di fegato clandestini. C’è un chirurgo turco su cui pende un mandato di cattura internazionale. Ci sono diverse condanne in primo grado. Il sospetto orribile è che i «donatori» fossero prigionieri di guerra serbi. «L’indagine è ancora in corso, ne sappiamo davvero poco. Ma se anche fosse, sarebbe un caso davvero unico e spiegabile con il caos che seguì alla guerra». L’eccezione che dovrebbe confermare la regola.