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 2013  ottobre 27 Domenica calendario

I 70 ANNI DI BONIMBA PER I CASSAINTEGRATI


Quela terre lui soit légère: così ha concluso il suo saluto Macky Sall, presidente del Senegal, ai funerali di stato per Bruno Metsu, a Dakar, lunedì scorso. Migliaia di persone, molte con una t-shirt bianca su cui c’era scritto in nero Merci Metsu, in stampatello, su una sola riga oppure su due, perché la grafica esiste anche in Senegal, ma il concetto era uguale. Il capitano del 2002, Cissé, era all’aeroporto, e poi sul carro funebre e poi al cimitero di Yoff. Di quella squadra c’erano anche Diouf, Fadiga, Coly. Che ha giocato anche in Italia, Perugia e Parma, e ha detto di Metsu: “Ci ha riempito di responsabilità e di libertà”. Mi sembra una bella frase per ricordare un uomo che non pensava solo al 4-4-2, tanto più in un tempo che non vede spesso andare a braccetto libertà e responsabilità. Sia lieve la terra anche ad Andrea Brambilla, in arte Zuzzurro, e a Piero Mazzarella, indimenticabile Tecoppa. Mazzarella tirava avanti a fatica, più volte per lui s’era invocata la legge Bacchelli. E Zuzzurro, dopo che gli avevano diagnosticato un tumore al polmone, aveva ideato uno spettacolo intitolato “Non c’è più il futuro di una volta” in cui pensava di poter fare battute di riferimento al suo male, ma forse no, perché qualcuno tra il pubblico poteva soffrirne a livello personale o di famiglia. Lui e Nino Formicola, in arte Gaspare, da anni erano stati emarginati da tutte le tv ed erano tornati al teatro. E Gaspare, ascoltando i coccodrilli in tv, s’è giustamente arrabbiato. “Ci hanno definiti miti della comicità, ma dov’erano quando siamo stati isolati? I comici devono morire perché ci si renda conto di cosa sono stati?”. Vorrei dire a Gaspare, con una pacca sulla spalla: sì, devono morire, e non solo i comici. Se poi si tratta di comici intelligenti, non volgari, è ovvio che il lavoro in Italia scarseggi, e poco importa se Neil Simon s’è mosso dall’America per conoscerli. Ieri notte abbiamo spostato gli orologi indietro di un’ora. Ma in assoluto siamo più indietro. Anni.
Sarà anche questo a portarmi sulla strada della memoria. Con due storie di calcio, una con un nome molto famoso, l’altra no. Il nome famoso è quello di Roberto Boninsegna. Centravanti tra i più coraggiosi, gol ovunque, dal Cagliari (26 in 91 partite) alla Juve (35 in 94) passando per l’Inter (171 in 281). Farà 70 anni il 13 novembre, ma li festeggerà il 5. A Mantova, la sua città. In fabbrica. A sostegno del presidio, in atto da febbraio, dei 180 cassaintegrati delle Cartiere Burgo. La storia è raccontata per esteso sull’Unità di ieri. La riassumo. Bell’esempio di architettura industriale, su progetto di Pier Luigi Nervi, la “fabbrica sospesa” segna l’orizzonte del Lago di Mezzo. “Tutte le vertenze e tutte le conquiste rischiano di andare perdute”, dice Boninsegna. E lui lo sa bene. “Esiste un libro di storie degli operai della Burgo, e fra tante foto ce n’è uno della squadra di calcio. C’è anche mio padre, giocava da difensore. Ci ha lavorato fino alla pensione. Era un sindaca-lista, e i sindacalisti erano visti male perché lottavano, proprio come fanno oggi. In un certo senso, sembra di essere tornati indietro di cinquant’anni”.
Un’ora? Cinquant’anni? Ognuno si regola sul suo orologio. Quello di Boninsegna funziona bene. Suo padre Bruno, classe 1917, in fabbrica ci andava in bici. “Ricordo mia madre che gli preparava la gamella per andare al lavoro, ricordo le sue battaglie. Ai suoi tempi si lavorava senza le mascherine. Papà faceva il saldatore, si metteva un fazzoletto davanti alla bocca, e quando tornava a casa il fazzoletto non era più bianco, era verde”. Ormai molti lo chiamano Bonimba, soprannome che deve a Brera. Quando andò a chiedergliene il motivo, non fu molto contento della spiegazione. Il Ba derivava da Bagonghi, nome generico dato ai nani dei circhi, forse derivato da Ba Kango, una tribù pigmea. Coi suoi 174 centimetri, non un gigante ma nemmeno un nano, Boninsegna in campo non aveva paura neanche del diavolo. E segnava anche di testa, in rovesciata, in mischia, da fuori, su rigore. Un giorno partorii un titolo (“Boninsegna segna e insegna”) e fui minacciato (scherzosamente) di licenziamento. Però ci si divertiva.
Il nome meno noto è quello di Gianni Rubini. Allenava la squadra Allievi federali del Piacenza nel campionato 1973/74. Dopo ogni partita scriveva le pagelle, con una stilografica, su un quaderno. Pagelle lunghe, a volte una pagina intera, e senza voto numerico, perché non si trattava di promuovere o bocciare ma di far crescere. Nessun giocatore ha mai visto quelle pagelle. Ieri sera si sono ritrovati tutti con Rubini, 40 anni dopo, per sapere come s’erano comportati con la Cremonese o con l’Atalanta, contro avversari sconosciuti (allora) tipo Cabrini e Prandelli. Mi sembra una bella iniziativa, di quelle che non finiscono in prima pagina ma dentro, da qualche parte, ci vanno e ci rimangono. Gli siano lievi la coppa, i ricordi e il Gutturnio.