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 2013  ottobre 27 Domenica calendario

CLAUDIO PAVONE


All’età di quasi 93 anni Claudio Pavone si è deciso a scrivere le sue memorie. Mi pare una scelta ineccepibile per un grande storico, con un grande passato davanti agli occhi. Sul tavolo, nello studio dove mi riceve, quaderni di appunti, fogli svolazzanti, un computer spento. Dice che il lavoro procede lentamente. E che è sempre stato lento: nello scrivere, come nel leggere. Si sente anche vagamente perplesso: «Non so bene a chi potrà interessare questo insieme di riflessioni che coinvolgono la mia vita di storico. Passiamo il nostro tempo a confutare gli errori altrui, a censurare certi comportamenti egocentrici e vanitosi e poi, magari, accade che finiamo col fare le stesse cose».
Il suo lavoro è stato accolto come un contributo fondamentale alla storiografia contemporanea. E naturalmente il pensiero va all’importante libro dedicato all’Italia coinvolta nella “guerra civile”.
«Beh, non è che mi sono state risparmiate critiche. Hanno pensato che con quella espressione volessi giustificare i fascisti. In realtà, con “guerra civile” intendevo non tanto equiparare le parti quanto sottolineare le differenze. Debbo a Vittorio Foa il titolo di quel libro, che io avrei chiamato “Le tre guerre”».
Che ricordo ha di Foa?
«Bellissimo. Era stato nello stesso carcere dove io fui trasferito agli inizi del 1944. Vittorio aveva un’intelligenza vivace e tagliente. E un rigore straordinario».
Il suo trasferimento avvenne da dove a dove?
«Fui arrestato, dopo l’otto settembre del 1943, in una situazione che il mio amico Marc Ferro definì in questi termini: ce ne pas héroique, c’est grotesque!».
Cos’era accaduto?
«Ero entrato in contatto con il partito socialista che mi affidò alle mani di quell’uomo straordinario che fu Eugenio Colorni. La mia militanza consisteva soprattutto nel fare propaganda e diffondendo l’Avanti! Ricordo che un giorno, camminando per strada, con una borsa piena di ciclostilati clandestini, mi accorsi che c’era il coprifuoco. Se mi avessero trovato con quei volantini avrei rischiato la fucilazione. Decisi perciò di sbarazzarmene e gettai la cartella all’interno di una macchina. Il caso volle che l’automobile fosse del capo dell’Ovra, Guido Leto, che in quello stesso momento, uscendo da un portone, si accorse del mio gesto».
Una sfortuna pazzesca.
«Sì, mi lanciò dietro i suoi uomini che mi catturarono. Mi portarono al commissariato, per interrogarmi, e il giorno dopo fui trasferito a Regina Coeli. Venni rinchiuso nel sesto braccio, con gli altri detenuti politici».
Chi c’era?
«C’erano alcuni membri del Gran Consiglio, che avevano fatto decadere Mussolini il 25 luglio, e molti di loro furono in seguito fucilati dopo il processo di Verona, e alcuni esponenti dell’antifascismo. La prima faccia che incontrai fu quella di Ruggero Zangrandi, che era stato mio compagno di liceo al Tasso. C’erano anche Manlio Rossi-Doria, che sarebbe diventato mio suocero, Giuseppe Martini, Carlo Muscetta. Tra i socialisti spiccava la figura di Saragat. Provai ad avvicinarlo, ma con me fu di un gelo imbarazzante».
Capì il perché?
«Non lo so, forse non si fidava. Mi trattò malissimo. E poi c’era Leone Ginzburg. La sera, visto che le celle restavano aperte e grazie alla tolleranza di alcune guardie, partecipammo a delle lezioni improvvisate. Ginzburg ne tenne una bellissima su Dostoevskij. Poi, un brutto giorno, vedemmo arrivare nel nostro braccio alcuni tedeschi e sentimmo distintamente pronunciare il nome di Ginzburg. Lo trasferirono al secondo braccio, quello gestito dalle SS. Un detenuto, mentre lo portavano via, intonò l’inno del Piave. E io piansi. Leone fu torturato e massacrato di botte. Morì pochi giorni dopo, erano i primi di febbraio del 1944, in infermeria».
Un altro che sarebbe morto di lì a poco fu Eugenio Colorni.
«Morì l’anno dopo, alla vigilia della liberazione di Roma. Fu ricono-sciuto da alcuni fascisti per la strada e ammazzato a rivoltellate. Fu uno shock terribile. Avevo per un po’ frequentato questo studioso di Leibnitz che mi aveva insegnato la lealtà del fare politica e trasmesso la speranza in un mondo migliore».
Dopo la morte di Ginzburg a lei che accadde?
«Fui trasferito nel carcere di Castelfranco Emilia, non lontano da Modena. Qui, diversamente dalla situazione romana, eravamo chiusi in cella con un’ora d’aria al giorno».
Come visse psicologicamente la nuova situazione?
«Fu assai pesante. Ad alleviare il clima ci pensò Nestore Tursi, un medico, comunista dalla fondazione, che mi fece da maestro».
Ma come passava il suo tempo?
«A parte certi sporadici contatti e certe conversazioni, trascorrevo il mio tempo a leggere. Mi ero portato un libro sul giansenismo in Italia di Jemolo, e un romanzaccio di Bruno Carra. Praticamente li imparai a memoria. Poi, siccome c’era una biblioteca gestita da un cappellano, riuscii a prendere a prestito ilDon Chisciotte.Ma la cosa straordinaria erano i “libri mascherati”».
Sarebbe a dire?
«Libri truccati, dalla veste innocua, che contenevano testi pericolosi. A un certo punto, Nestore mi passò un romanzo in francese. Cominciai a leggerlo, ma vidi che qualcosa non quadrava. In realtà, nelle pagine si nascondeva l’Anti-Dühring di Engels. Fu il primo libro marxista che lessi».
La sua famiglia l’agevolò nelle letture?
«Oddio, non era così determinata. Mio padre era avvocato. Morì relativamente giovane, a 58 anni nel 1943. Era stato direttore dell’ufficio trasporti della Confindustria. Credo che la mia passione per i treni sia dovuta a lui che era un esperto di mobilità. Ad ogni modo, papà era laico e la mamma cattolica. Strinsero il patto di dividersi la mia educazione. Frequentai asilo ed elementari dalle monache inglesi, senza peraltro imparare mai bene la lingua, e gli otto anni di ginnasio e liceo li feci al Tasso. Tra i compagni di scuola c’erano, oltre ad Andreotti, anche i figli di Mussolini, Bruno e Vittorio».
E come fu il rapporto con loro?
«Ma, in fondo, godevano di molte libertà e quei privilegi finirono per agevolarci».
Come fu la sua vita sotto il fascismo?
«Fui per lungo tempo a-fascista. Mio padre, che aveva sei figli, si iscrisse al fascio. In casa imprecava contro il regime, lo sentivo a volte dire: “quel porco di Mussolini!”, fuori invece era tutto un elogio. Cosa vuole: questa è stata la doppiezza degli italiani. E non sono per niente d’accordo con Renzo De Felice, grande storico intendiamoci, che sosteneva che per lungo tempo gli italiani diedero spontaneamente il loro consenso al regime. La verità è che non teneva conto del conformismo italiano: fuori fascista e in casa antifascista».
E lei a-fascista.
«Guardi, prima di finire nelle carceri in quel modo assurdo che le ho raccontato, non credo di aver mai fatto cose particolarmente gloriose. Ero molto fiero, questo sì, dell’esistenza in famiglia di un nonno patriota e di uno zio generale ».
Suo nonno cosa aveva fatto?
«Aveva partecipato ai moti del 1848 e scontò per questo motivo dieci anni di galera sotto i Borboni. Lo rinchiusero nel carcere di Procida. Poi, accadde che Gladstone, ministro inglese, venne in visita a Napoli e restò turbato da ciò che vide. Pronunciò allora la frase: “Il regno di Napoli è un abominio del genere umano”. Fu così che il re scelse alcuni politici rinchiusi in galera, li imbarcò su una nave, con destinazione Sudamerica. C’era anche Luigi Settembrini fra i prigionieri esuli. E suo figlio, per aiutare il padre, si imbarcò come cuoco. In realtà, fu un espediente per portare armi a bordo con cui impadronirsi della nave».
Insomma una rivolta tipo “Bounty”.
«Non proprio, anche perché il comandante fu assai più ragionevole e accettò di fare rotta sulle coste inglesi. In una lettera, mio nonno raccontò le festose accoglienze che i nuovi esuli ebbero dalla città di Liverpool. Dove restò per alcuni anni, campando con le lezioni di italiano, prima di tornare in Italia e intraprendere la carriera di magistrato».
Diceva di suo zio, anche.
«Il fratello di mio padre, il generale Pavone, dopo lo sbarco degli alleati tentò di costruire un corpo di volontari. In precedenza era stato in Somalia. Dove poté verificare le condizioni miserabili del nostro esercito. E fu questo il principale motivo del dissidio che ebbe con Rodolfo Graziani ».
Che si concluse come?
«Con la defenestrazione dello zio, il quale si era augurato che al punto in cui eravamo giunti era meglio per il nostro esercito una sconfitta. Quando raccontai l’episodio a Vittorio Foa, lui mi disse: vedi Claudio, questo fa cogliere la differenza tra fascismo e nazismo. Per quella frase Hitler avrebbe fatto fucilare tuo zio, i fascisti lo hanno solo messo in pensione ».
Accennava al corpo dei volontari.
«Il Partito d’Azione, già prima del 25 luglio, sperava in una rivolta militare. E un giorno vennero a casa Carlo Muscetta e Raimondo Craveri, genero di Benedetto Croce, sottoponendo a mio zio un progetto insurrezionale che poi, vista l’astrattezza, non portò ad alcun esito. In fondo, devo alle figure di mio nonno, che non ho mai conosciuto, morì nel 1899, e di mio zio se mi sono occupato di storia. Mi piacevano le loro vicende. Sognavo le loro avventure. Cominciai da giovane a occuparmene. Al Tasso finirono con il soprannominarmi: “lo storione”».
In quanto storico come si giudica?
«Mi sono laureato in legge, poi ho perfino pensato di prendere una seconda laurea in filosofia. Seguivo le lezioni di De Ruggero e Calogero e in gioventù avevo avuto un prete gesuita che mi aveva avvicinato a Kant. E questo fu esiziale, perché grazie a Kant persi la fede in Dio. Ma alla fine di tutto ciò prevalse in me la passione per la storia. Divenni archivista a Roma e insegnai all’università di Pisa».
Cos’è la verità per uno storico?
«Ci sono biblioteche intere che hanno provato a rispondere. Una verità storica con la V maiuscola non esiste. Esiste una cronaca che è veritiera o falsa. Non puoi dire, per esempio, che a Canne vinsero i Romani. Ma il problema di uno storico è diverso da quello di uno scienziato. Entrambi, in qualche modo, si richiamano al principio di causa-effetto. Ma uno scienziato non può sostenere che se getti una pietra dall’alto questa sale invece di cadere. Uno storico può porsi le conseguenze di un certo gesto e qui è facile finire nel territorio dell’immaginazione. I romani vinsero sui cartaginesi. È un fatto. Ma dai fatti si possono trarre conseguenze sbagliate».
A proposito di errori, per passare a un piano più personale, cosa pensa abbia sbagliato la sua generazione?
«Good question. Penso che la nostra generazione, quella per intenderci dell’impegno politico e civile, abbia mirato troppo in alto. Ha cercato obiettivi che non hanno tenuto conto dell’arretratezza culturale di questo paese. Ritengo siano stati errori per eccesso di ottimismo. Oltretutto, non si è tenuto granché conto che il mondo andava verso la “guerra fredda” e che non era facile stare né con l’uno né con l’altro».
Come vede questo finale di partita dopo sessant’anni di giravolte?
«In certi momenti mi dico, autoironicamente, di essere riuscito a non morire fascista né democristiano. Spero di non crollare sotto il peso di questo ventennio tanto surreale quanto doloroso. Credo sia ancora possibile. Alla mia veneranda età passo il tempo a rimuginare il passato; però mi dispiacerebbe non vedere come sarà questo finale di partita. C’è sempre, ovvio, il problema della morte».
Come lo vive?
«Io dico che un problema del genere puoi averlo anche nel pieno dell’adolescenza. Non è necessariamente una prerogativa dei vecchi. Il problema della vecchiaia è il decadimento fisico e mentale. E qui c’è poco da fare. La vita ancora mi incuriosisce. E la verità che è implicita nella curiosità è quel tanto o poco di futuro che ho davanti. Mi vengono in mente i versi di Dante, quando Virgilio incontra Stazio nel Purgatorio: Facesti come quei che va di notte/ che porta il lume dietro e sé non giova/ ma dopo sé fa le persone dotte. Lo storico, perché tale resto, guarda dietro. Però gli piacerebbe leggere il futuro».