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 2013  ottobre 27 Domenica calendario

TIZIANO SCLAVI


«SVENEGONO SUPERIORE (Varese)
Sono sempre stato una nullità. Da bambino mia madre mi scambiava per mio fratello, anche se ero figlio unico. A scuola la maestra mi segnava sempre assente, anche quando ero presente. Tutti gli altri ragazzi avevano degli hobby. Il mio hobby è sempre stato respirare». Così scriveva in Memorie dall’invisibile, dicembre 1992. Ora lui ci aspetta nell’ultima casa in fondo al bosco. Per arrivarci bisogna prendere una strada sterrata, il navigatore impazzisce, si gira in tondo per un po’, si ritorna indietro. Finalmente una casa solitaria. Un cancello. Si apre. Come te la immagini la casa dell’uomo che ha inventato Dylan Dog? Il campanello suonerà normalmente o urlerà come quello dell’inquilino di Craven Road? E ci sarà il famoso e temibile «spettro sumero» nel frigorifero? Appena aperta la portiera un abbaiare di cani. Sette pericolosi bassottini ci circondano ma una donna alta e magra, capelli corti, vestita con gusto, ci viene a salvare. È Cristina, la moglie di Tiziano Sclavi. La donna che ha deciso di vivere con lui lontano da tutto e da tutti. Perché Tiziano Sclavi da questa casa non esce mai. Dentro c’è il famoso galeone che “l’indagatore dell’incubo” costruisce dal primo numero della serie, nell’ormai lontano 1986. E la pistola di Dylan, quella che non si porta mai dietro ma che regolarmente gli lancia il suo assistente Groucho, pure. Ma se pensate che Sclavi scriva con la penna d’oca come fa la sua creatura e non possieda neanche un cellulare, vi dovete ricredere: «Sono un fanatico della tecnologia. Ho in casa più di trenta computer, senza contare iPad e smartphone vari».
Ci accomodiamo in un salotto ampio e luminoso. Cristina ci offre una bibita rigorosamente analcolica. «Sedetevi pure sul divano», dice, «l’unico problema è che vi ritroverete coperti di peli». Sclavi, molto alto, dai capelli grigi corti e ordinati, indossa una camicia a quadri e un paio di jeans. È un uomo di una gentilezza squisita. Come il suo personaggio non tocca alcol da svariati anni; ha raccontato la sua dipendenza in maniera impietosa in Non è successo niente (Mondadori, 1998). Leggerlo è il modo più efficace per capire il suo mondo ma non solo: attraverso quelle pagine che giocano tra biografia e visione, ti sembra di essere lì con lui, dentro la vita di un uomo geniale e tormentato capace di inventare un personaggio a fumetti tra i più venduti nel mondo (nel periodo d’oro anche un milione di copie al mese) e di finire in un inferno che lo porterà a chiedere di farsi ricoverare per essere sottoposto a elettroshock pur di far cessare una indicibile sofferenza interiore.
Questo è un buon periodo. Anche se continua a non muoversi da casa, tante cose stanno succedendo attorno a lui. A partire da un grande rinnovamento, da lui voluto e che coinvolgerà la sua creatura, Dylan Dog, affidata a uno sceneggiatore giovane, Roberto Recchioni: «È più bravo di me, ha carta bianca». Lo scorso aprile è uscita una bella edizione di un altro personaggio di Sclavi, Roy Mann, per Lizard. È un personaggio che, come lui, di lavoro fa lo sceneggiatore. Sclavi scrive da sempre. «Ho incominciato prima a disegnare (male) e poi quasi subito a scrivere. Il primo, “tra virgolette” romanzo, l’ho scritto in seconda media. Al liceo il professore di italiano, nonostante avessi la media del 7 mi diede 9 sulla pagella. Io gli chiesi come mai e lui disse: “Lascia fare”. Fu il primo a credere in me. Le prime letture sono state il Corriere dei Piccoli, i fumetti Bonelli e Edgar Allan Poe. Di lui mi sono innamorato, l’ho letto tutto quando avevo sette-otto anni. E ho letto anche tutte le fiabe più sanguinose e paurose che si potessero trovare. Ho fatto da solo: i miei genitori non avevano libri e io abitavo in un paesino orribile dell’Oltrepo Pavese, Canneto. Ho vissuto dodici anni in questo posto che ho odiato con tutto me stesso». Sclavi è anche giornalista: «Nel ’76 venni preso dal Corriere dei Ragazzi dove qualche tempo dopo fu assunto anche un giovane di buone speranze che si chiamava Ferruccio De Bortoli. Quest’anno compio trentacinque anni da giornalista professionista: mi aspetto una festa dell’Ordine con fuochi artificiali e medaglietta ricordo. Guadagnavo trecentomila lire al mese contro le seicentomila che prendevo da freelance, ma una volta assunto i miei vedevano che andavo a lavorare e così erano contenti mentre prima, siccome non andavo all’università, secondo loro non facevo niente». Il Corriere dei Ragazzi diretto da Giancarlo Francesconi è stato una palestra di talenti: da lì vengono Mino Milani, Alfredo Castelli; lì pubblicavano Hugo Pratt, Dino Battaglia, Sergio Toppi e Grazia Nidasio («Fu lei, l’autrice di Valentina Mela Verde, a introdurmi »), Ferdinando Tacconi, Bonvi, Milo Manara, Giancarlo Alessandrini, Attilio Micheluzzi. A un certo punto chiuse. «Sì, l’azienda invece di investire in raccolte degli autori che pubblicavano sul giornale, come chiedeva Francesconi, decise di trasformarlo in un giornale simile all’Intrepido. Se avessero fatto i volumi avrebbero anticipato le cosiddette graphic novel che oggi vanno tanto di moda. Ma il Corriere dei Ragazzi allora vendeva 140mila copie e l’Intrepido superava il mezzo milione: una cifra che faceva gola. Però, naturalmente, in questo modo non solo si è perso il pubblico più sofisticato e curioso che era stato quello del Corriere dei Ragazzi ma si è andati verso il disastro».
Di recente, dedicato a Sclavi, è uscito un imponente volume degli Archivi Bonelli (sempre per Rizzoli Lizard) con prefazione del filosofo della scienza Giulio Giorello. Da Zagor a Mister No, passando ovviamente per Dylan Dog, ne ripercorre tutta la carriera “bonelliana”. «Era un periodo che la Bonelli s’era lanciata in tante altre cose che si sono rivelate fallimentari, compresa una rivista di enigmistica che mi toccava correggere e Pilot, rivista di fumetti di cui ero il direttore ma anche l’unico redattore. A un certo punto Sergio decise di tornare a concentrarsi sulle produzioni e mi chiese di sviluppare un personaggio: così è nato Dylan. Dopo il primo numero il distributore disse a Bonelli che Dylan Dog era “morto in edicola”, una notizia che per pietà mi hanno tenuto nascosta per diverso tempo. Poi, a partire dal numero 12, ha avuto un’impennata e da lì è andato avanti facendo cifre incredibili e coinvolgendo un pubblico trasversale che non era solo quello abituale dei fumetti». Persino Umberto Eco ne ha tessuto le lodi. «Una volta ha dichiarato: “Tengo sul comodino la Bibbia, Omero e Dylan Dog”.
Questa frase è stata usata in ottocentomila modi e credo che lui sia incazzatissimo. Ma per quanto mi riguarda in realtà non ho una grande opinione di me e del mio lavoro: credo che tutti si sbaglino e prima o poi si accorgeranno che sono un impostore».
Un lato molto poco conosciuto di Sclavi è anche quello di autore di canzoni: da poco è uscito un album con i suoi testi a cura del gruppo Seconda Marea, Gli anni del mare e della rabbia (in allegato con il nostro XL) mentre l’editore Squilibri ha pubblicato Ballate della notte scura, un libro più cd. «A proposito di canzoni e di Eco. L’unica volta in vita mia che ho visto Umberto Eco siamo stati insieme molto a lungo perché da quell’incontro è nato un libro- intervista (Dylan Dog, indocili sentimenti, arcane paure
a cura di Alberto Ostini, Euresis, 1998). A un certo punto mi ha detto: perché insisti a pubblicare in Dylan Dog quelle poesie che hanno tutta la metrica sbagliata? E io ho detto: quali poesie? Io non ho mai scritto poesie, per carità. Io la poesia non la capisco. Quelle sono canzoni e hanno la musica, quindi la metrica funziona con la musica. Una musica che avevo in testa. E lui ha risposto: “Allora dovresti allegare una cassetta”. Oggi finalmente ho realizzato quel sogno».
Il pomeriggio sul divano di casa Sclavi scorre lento. Le chiacchiere vanno da Pasolini, «mai troppo rimpianto », al berlusconismo, «quel po’ di cultura rimasta sopravvive a gomitate», e naturalmente si pensa a Sergio Bonelli. La sua morte, due anni fa, è stata un duro colpo: «Una volta non ci siamo parlati per tre mesi. Ma era un grande amico e io ero sempre a caccia di figure genitoriali: Decio Canzio (il direttore della Bonelli, ndr) era mio papà e siccome il posto di papà era occupato Sergio è diventato mia mamma. Con la morte di questi due grandi uomini è finito un mondo di cui facevo parte e sono morto un po’ anch’io». Arriva sera e i bassottini cominciano ad agitarsi. Hanno fame. Un’ultima domanda, ormai inevitabile: perché vivere lontano da tutto? Perché non uscire mai di casa se non per lo stretto necessario? «Per pigrizia. Per paura del mondo. Perché non guido quasi più. Perché con l’ecommerce mi portano tutto a casa. E soprattutto per i miei cani: quando ne hai sette spostarsi è un problema. E poi la mia casa mi piace, qui ho i miei libri e i miei film, i miei computer, i miei gadget». E poi c’è Facebook, i social network. «I social network mi sono totalmente estranei. Fosse per me fonderei un asocial network».