Jaime D’Alessandro, la Repubblica 27/10/2013, 27 ottobre 2013
IL SATELLITE DELLA PORTA ACCANTO
Piccoli, efficienti, low cost. A tal punto che la conquista dello spazio potrebbe diventare di massa. È la prima generazione di micro satelliti, quelli fatti praticamente in casa. Dei giocattoli, a vederli così: un metro cubo di circuiti tutt’altro che all’avanguardia e sensori di facile reperibilità, capaci però non solo di orbitare attorno alla Terra ma anche di inviare immagini in alta risoluzione, individuare e seguire meteoriti che si dissolvono entrando in contatto con l’atmosfera, riconoscere i campi magnetici sulla superficie terrestre, seguire fenomeni meteorologici. Con la promessa di rendere l’osservazione del nostro pianeta e del cosmo aperta a tutti, magari attraverso una app per smartphone.
Dall’arrivo nel giugno del 2012 di ArduSat su Kickstarter a quella del telescopio spaziale Arkyd, esattamente un anno dopo, ormai è un continuo fiorire di progetti del genere. E i fondi raccolti online grazie ai siti di crowdfunding aumentano, passando dai centomila dollari di ArduSat al milione e mezzo di Arkyd. Quest’ultimo, è notizia di pochi giorni fa, ha ora fra i suoi finanziatori anche Sir Richard Branson. Il fondatore di Virgin, che ha il pallino per i viaggi spaziali, si è aggiunto a Larry Page e a Eric E. Schmidt di Google. Mentre uno degli otto consiglieri della startup che lo sta producendo, la Planetary Resources, è il regista James Cameron.
«L’osservazione e le esplorazioni spaziali non sono esattamente una novità. Quello che è nuovo è riuscire a farlo a costi bassi e con maggiore efficienza» racconta Chris Lewicki, diventato presidente della Planetary dopo aver lavorato alla Nasa alle missioni del Rover su Marte. «E sono proprio i costi bassi e la maggiore efficienza i due fattori fondamentali per aprire questo mondo allo sviluppo commerciale ». Arkyd, “il primo telescopio spaziale pubblico”, in realtà è parte di un progetto più vasto per lo sfruttamento delle risorse minerarie nelle fasce di asteroidi. Ma quel che qui importa è che sia piccolo (è lungo circa un metro) e accessibile. E che generi profitti. Come? Grazie ad un iPad montato alla base e a un braccio con una camera che può fotografare il telescopio mentre viaggia a 400 chilometri dalla superficie terrestre. Così che, per 25 dollari, si possa avere l’immagine di Arkyd con sullo sfondo la Terra, mentre sul tablet viene visualizzata una nostra foto.
In realtà è dal 1999 che gli ingegneri aerospaziali si gingillano con l’idea di un satellite ultra economico. Il primo si chiama CubeSat ed è stato costruito con componenti di uso comune per esser venduto in kit di assemblaggio.
Un apparecchio minuscolo, dieci centimetri per dieci centimetri, ma abbastanza capiente per ospitare sensori, strumenti per la comunicazione e pannelli solari per alimentarlo. Il tutto da mettere in orbita con “soli” sessantamila dollari, un centesimo rispetto ai fondi necessari per un satellite tradizionale, stando ad un calcolo fatto dalla rivista Wired.
CubeSat venne lanciato nel 2003 con un vettore russo e ne seguirono diversi altri nel tempo messi a punto per scopi diversi da alcune università americane. Dieci anni dopo si è passati ai satelliti “diy” (do it yourself, fai-date) veri e propri, aumentando le misure fino al metro di lato e accarezzando il sogno di un’osservazione dello Spazio e del nostro pianeta guidata da dilettanti e amatori. Di qui i progetti come ArduSat che usa il processore open source italiano Arduino, o ancora Skybox che invece è opera di una startup fondata a Stanford. Intende mandare in orbita i suoi mini satelliti applicativi o scientifici usando vecchi missili sovietici usati per le testate nucleari e in via di dismissione.
«Il problema infatti è proprio la messa in orbita» spiega Marco Casolino. Lui sullo spazio e dintorni lavora dal 1993 e oggi, a quarantatré anni, è primo ricercatore all’Istituto nazionale di Fisica nucleare presso l’Università di Tor Vergata, a Roma. «Strano a dirsi ma per vincere la gravità e raggiungere i quattrocento chilometri di altitudine un vettore brucia appena il cinque per cento del carburante. Il restante 95 serve per il volo orizzontale ovvero per stabilire la velocità e l’inclinazione necessaria per volare attorno alla Terra. L’esplorazione fai-da-te intesa come alla portata di chiunque è ancora lontana. Quel che sta accadendo è che istituti di ricerca piccoli e aziende private con alcune centinaia di migliaia di euro, raccolti online, possano assemblare dispositivi interessanti chiedendo poi un passaggio alla Nasa». Ecco perché Elon Musk, cofondatore di Paypal (il sistema per i pagamenti sicuri online), ha creato nel 2002 la Space X. I suoi sono una nuova tipologia di razzi utilizzabili più volte, la serie Flacon, abbattendo i costi di circa dieci volte rispetto a quelli del passato. E il 22 maggio 2012 la Space X è diventata la prima compagnia privata ad aver inviato un veicolo alla Stazione spaziale internazionale dimostrando di esser più efficiente e di saper gestire i costi molto meglio delle agenzie governative russe e americane.
Il prezzo in ogni caso, anche con la Nasa, non è alto se si tratta di un mini satellite. Circa 10 mila dollari al chilo per mandare in orbita qualcosa che poi potrebbe generare profitti con foto ricordo sul modello di Arkyd. Un aspetto fondamentale. «Non c’è più un euro» continua Casolino, senza troppi preamboli. «Quando il congresso Usa ha iniziato a tagliare i fondi alla Nasa, ci sono stati periodi durante i quali non avevamo nessun occhio puntato verso lo Spazio e quindi gli asteroidi non venivano tracciati. È vero che se dovessimo avvistare un corpo celeste in rotta di collisione con la Terra, il tempo necessario per approntare una contromisura efficace e metterla in pratica è di circa dieci anni. Quindi qualche mese di buco nel nostro sistema di controllo non fa forse una grossa differenza. Ciò nonostante impressiona sapere che rischiamo costantemente di restare senza difese».
E allora perché non sposare il mondo dell’open source, dei satelliti semi artigianali, dei razzi non più usa e getta e delle imprese commerciali. In fondo oggi basterebbe mandare in orbita un iPhone con qualche modifica per osservare Terra e Spazio. Con un’unica controindicazione, meglio: una sindrome chiamata di Kessler. Senario alla Gravity immaginato nel 1991 dall’omonimo consulente Nasa. Sosteneva che il numero di oggetti in orbita bassa intorno alla Terra diventerà tale che finiranno per entrare in collisione fra loro dando vita a una reazione a catena. A quel punto l’incremento esponenziale del volume dei detriti e degli impatti creerà una sorta di nebulosa attorno al pianeta abbastanza densa da impedire ogni altra missione. Comprese quelle low cost e in formato mini.