Daria Galateria, la Repubblica 27/10/2013, 27 ottobre 2013
JEAN COCTEAU
Fu Picasso ad accorgersene: Cocteau aveva cambiato naso. A quarant’anni era dritto: «ma è diventato aquilino», protestò Picasso. «Sì», ammise subito Cocteau: «è il naso di mio nonno». Lo racconta lo stesso Cocteau, nel 1962, allo scrittore americano William Fifield, autore per la Paris Review di mitiche interviste. In quel 1962, un anno prima di morire, Cocteau ancora inalberava, come su una picca, il triangolo isoscele della sua testa “perpetua”: la pelle, una pergamena intagliata dalle sottili linee moderniste degli occhi e delle labbra. Stava diventando, insieme alla sua contemporanea Tour Eiffel, il più celebre emblema di Parigi nel mondo; e la si può vedere riprodotta cento volte, nella casa- museo appena riaperta di Milly-la-Foret, nei ritratti di Andy Warhol, Modigliani, Bernard Buffet — e Picasso, appunto. Cocteau era in questa sua casa di campagna (adottata nel 1947 perché il villaggio, irraggiungibile con qualsiasi mezzo pubblico, ancora riposa in una quiete secentesca) quando, l’11 ottobre di cinquant’anni fa, lo chiamarono per un’intervista: era morta Edith Piaf. Non gli passarono la telefonata, perché non stava bene. Ma il suo compagno Doudou — il muscoloso slovacco che Cocteau aveva incontrato ancora nel 1947, e che subito aveva trasferito dalle miniere in cui lavorava da quando aveva tredici anni a potare aiuole a Milly — si era appisolato, e Cocteau aveva risposto. «Questa notizia che mi dà mi fa venire le soffocazioni», rispose cortesemente all’intervistatore: «può richiamarmi nel pomeriggio? ». Si mise a scrivere un ricordo della Piaf, ma verso mezzogiorno sussurrò a Doudou: «A tra poco», e si spense.
Era considerato l’uomo delle superfici e infatti, più ancora che romanziere (Potomak, Thomas l’impostore) era pittore celebrato; ed era stato subito teorico di musica, autore di teatro e di balletti, attore e regista. Dicevano di lui, irritandolo, “genio funambolico, acrobata, virtuoso”, e tutto il bel mondo lo chiamava “il Principe Frivolo”. Ma molto tempo è passato, all’epoca in cui Cocteau conversa con Fifield. Satie, Stravinski e Picasso gli hanno insegnato «a correre più svelto della bellezza, il che dà l’impressione di darle le spalle». Era arrivato Radiguet («C’è un bambino col bastone», lo aveva annunciato la cameriera), e Cocteau si era innamorato. Radiguet, in piena avanguardia, riteneva che bisognava «scrivere come tutti quanti», che «bisognava copiare». Cocteau trasmigrò al classicismo e alla tragedia greca; proclamò nel ’26 il Ritorno all’ordine.
Scrisse i capolavori della disintossicazione (Oppio), «che traevano le radici nel cielo stellato del corpo umano»; la scrittura, un impasto scucito, essenziale, abbagliante. Sono gli anni degli Enfants terribles, de La Voce umana; del testo e i disegni del Libro bianco, la più splendida resa plastica dell’amore omosessuale; al cinema, dei visionari Sangue d’un poeta e
La Belle et la Bête (ma Jean Gabin, amante della sua amica Marlène Dietrich, gli suggeriva: «Adesso ce lo fai un vero film, con dei bistrot?»).
Nell’Occupazione, Cocteau continua la sua festa mondana ininterrotta; e gli verrà rimproverato. Ma nel 1950 il film Orfeo trionfa al Festival di Venezia, e dal 1955 vengono in massa le onorificenze, che lo preoccupano un po’ (ripeteva con Satie: «Non bisogna solo non riceverle, non bisogna proprio essersele meritate»). Si occupa sempre più di cinema, scenografie, costumi, ceramica, di splendidi, immensi mosaici, essenziali e sensibili: le opere manuali che considerava «terapeutiche». Ma a Fifield ripete che l’artista è solo l’intercessore, la manodopera di un essere, di una forza che ha dentro di lui, e che lui conosce del resto molto male. «Troppo rapido, troppo stupido» era la divisa della sua splendida stilizzazione.