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 2013  ottobre 27 Domenica calendario

RITORNO A MAASTRICHT


Nessuno si accorse quando sir John Kerr scivolò discretamente dalla poltroncina e andò ad accucciarsi sotto il tavolo di frassino chiaro, ai piedi di John Major. Nessuno, beninteso, tranne il Primo ministro inglese, che spostò le gambe per fare posto al baronetto di Kinlochard, comandante dell’Ordine di San Michele e San Giorgio nonché ambasciatore di Sua Maestà Britannica a Bruxelles. La notte del 10 dicembre 1991 il termometro sfiorava gli zero gradi. Sotto le alte finestre del Palazzo del governatore del Limburgo, a Maastricht, le acque della Mosa scorrevano dense. E lambivano dolcemente l’isolotto sul fiume dove, nel moderno edificio di mattoncini rossi, i dodici capi di Stato e di governo dell’Europa stavano scrivendo una controversa pagina di storia. Tra mille difficoltà.
Il presidente di turno, il premier olandese Ruud Lubbers, per cercare di sbloccare la discussione che durava ormai da ore sulla Carta sociale, aveva deciso di tenere una riunione ristretta ai soli capi di governo, facendo allontanare dalla sala diplomatici, consiglieri e ministri. Ma Major, che stava combattendo una battaglia da solo contro gli altri undici Paesi per impedire l’adozione della Carta, aveva perduto le sue note e non si sentiva pronto a sostenere il confronto. Così chiese all’ambasciatore Kerr di restare per consigliarlo. E Kerr non trovò di meglio che nascondersi sotto il tavolo del premier britannico. L’espediente non servì a molto. A un certo punto Andreotti, allora capo del governo italiano e uno degli artefici di Maastricht, rivolse a Major alcune domande insidiose. Major scostò la poltrona per guardare Kerr sotto al tavolo e chiedere consiglio. MaKerr,chenoncapival’italianoenonavevalecuffie per la traduzione, non poté che stringersi nelle spalle. Il premier britannico era davvero solo.
Se la cavò, comunque, con inglese ostinazione. All’una di notte, Lubbers fece il punto della situazione: «John, siamo undici contro uno. Devi cambiare idea». E Major rispose sorridendo: «Mi spiace per voi, ma per prendere la decisione occorrono dodici voti. E voi non li avete». A quel punto il gigantesco Helmut Kohl rovesciò all’indietro la testa in una grande risata e si alzò. Il vertice era finito. L’Europa sociale restava nel limbo delle buone intenzioni, relegata in una dichiarazione annessa al futuro Trattato. Sir John Kerr potè uscire dalla sua scomoda posizione con il gessato un po’ spiegazzato. Tutti se ne andarono alla spicciolata, senza neppure fare gli auguri al ministro degli esteri olandese Van den Brook, che compiva gli anni. Major lasciò la sala senza stringere le mani. «Game, set e match per noi», dichiarò poi alla stampa britannica. Il presidente francese Mitterrand, già molto malato, era furioso: «Non siamo riusciti ad affondare gli inglesi », commentò amaro. Entrambi si sbagliavano di grosso.
Il Trattato di Maastricht, di cui il primo novembre ricorre il ventesimo anniversario dell’entrata in vigore, ha cambiato in modo definitivo la storia del continente creando l’Unione europea e fissando le tappe e i criteri della futura unione monetaria. Ma, come sempre avviene nelle cose comunitarie, l’attenzione dei media e degli stessi politici che negoziarono accanitamente per due giorni e due notti nella cittadina olandese fu monopolizzata più dai fallimenti che dall’enorme, indubitabile risultato della moneta unica. Forse perché non tutti credevano davvero che sarebbe arrivata.
Oggi la Mosa continua a lambire imponente i muri del “paleis” del governatore del Limburgo, e i cigni continuano a nuotare lungo la passeggiata dove, ricordano gli impiegati del palazzo, Mitterrand andava a «prendere aria» insieme a una bella e misteriosa accompagnatrice nelle pause dei lavori. Ma l’Europa che circonda questa florida cittadina dove si incontrano cultura francese, olandese e tedesca è irriconoscibile rispetto al continente lacerato che si diede appuntamento qui nel dicembre ’91.
Per capire lo spirito di Maastricht occorre ricostruire lo straordinario momento storico in cui si colloca. Nel dicembre 1991, poche ore prima del vertice, Russia, Ucraina e Bielorussia annunciano lo scioglimento dell’Urss. La Germania è riunificata da un solo anno. Da sei mesi è cominciata la disintegrazione della Jugoslavia. L’Europa deve affrontare la fine della guerra fredda e l’inizio di una guerra vera, il crollo della Cortina di ferro e la nascita della superpotenza tedesca, la scomparsa del comunismo e l’approdo verso la democrazia degli ex satelliti sovietici. La riunificazione tedesca fa paura a molti. Alla Francia in primo luogo, che vede la fine della propria preminenza in Europa. Andreotti commenta cinico: «Amo talmente la Germania che ne preferivo due». Ma anche Kohl si rende conto delle difficoltà. E con il suo ministro per gli affari speciali, Wolfgang Schauble (oggi ministro delle finanze), decide che occorre dissipare i timori per la rinascita tedesca ancorando profondamente la Germania all’Europa. Il presidente della Commissione, Jacques Delors, uno dei pochi francesi ad avere capito e sostenuto la riunificazione, coglie l’eccezionalità del momento e propone di far fare all’Europa il grande salto verso l’unione politica, economica e monetaria. Andreotti si schiera al suo fianco. Kohl accetta di sacrificare il marco in cambio di una unione politica. Mitterrand si adegua, ma con l’intenzione di limitare il meno possibile la sovranità di una Francia che si sente ancora grande potenza. L’unico che non vuol sentir parlare né di unione politica, né economica, né monetaria è il premier conservatore britannico John Major. Lui, almeno, ha le idee chiare.
Nel dicembre 1990 a Roma, tre mesi dopo l’unificazione tedesca, la presidenza italiana avviava due conferenze intergovernative: una per l’unione economico— monetaria, l’altra per l’unione politica. Il lavoro preparatorio veniva poi ripreso dalla successiva presidenza lussemburghese, poi da quella olandese. Ma lunedì 30 settembre 1991, un giorno che la diplomazia olandese ancora ricorda come «il lunedì nero», tutto sembra sul punto di crollare. La guerra in Jugoslavia, e la forzatura tedesca per riconoscere la Croazia, hanno allarmato la Francia e gli altri partner. Parigi si oppone alla comunitarizzazione della politica estera e di difesa voluta dalla Germania. E quel lunedì, a una riunione dei ministri degli esteri, il tedesco Genscher fa un’improvvisa retromarcia schierandosi con i francesi. «Un tradimento», lo definisce Lubbers. La proposta olandese di comunitarizzare anche la politica estera, la difesa e la giustizia riceve solo due voti (olandesi e belgi) su dodici. L’unione politica muore ancora prima di arrivare a Maastricht. Lubbers, furibondo, chiede spiegazioni a Kohl. «Siamo pratici — gli risponde il Cancelliere — la mia amicizia con Parigi è più importante di questi progetti».
Sul tavolo resta dunque solo il progetto dell’Unione monetaria. Gli inglesi vi si oppongono, ma hanno accettato di non bloccare il nuovo trattato in cambio del riconoscimento del loro diritto a restare fuori dalla moneta unica. Ma, anche tra i Paesi che accettano l’idea dell’euro, che allora veniva ancora chiamato “Ecu”, le resistenze e le perplessità sono molto forti. La Bundesbank, la Banca centrale tedesca, è restia ad abbandonare il Deutsche Mark, simbolo della rinascita e della forza della Germania coronata dalla riunificazione. Molti si augurano che i “paletti”, fissati con i criteri di convergenza, chiudano la porta in faccia ai governi meno disciplinati, come l’Italia, la Spagna o la Grecia. E i criteri sono severi: deficit sotto il tre per cento del Pil; debito al 60 per cento o comunque in riduzione verso quella soglia; inflazione non superiore dell’1,5 per cento rispetto alla media dei tre Paesi più virtuosi; capacità di restare per almeno due anni nello Sme, il sistema monetario europeo, che prevede margini ristrettissimi di fluttuazione tra i cambi delle diverse valute. Il tempo è un fattore determinante. L’architettura della moneta unica è definita, ma manca la tabella di marcia. Senza una data di nascita, l’euro è destinato a restare nel limbo delle belle intenzioni. Ci pensa Andreotti, nonostante sia alla guida di un Paese che, più di altri, avrebbe bisogno di anni per prepararsi. La sera della vigilia del vertice, il capo del governo italiano è invitato a cena da Mitterrand nell’hotel Juliana a Volkenburg, una villa—castello in mattoni rossi un po’ fuori Maastricht dove il presidente francese ha la propria base. È qui che Andreotti propone di fissare la data per l’entrata in vigore della moneta unica nel 1999. «L’Europa deve chiudere questo secolo terribile con un segnale di speranza», spiega. Mitterrand accetta, entusiasta. Sarà lui, la mattina del vertice, a lanciare la proposta del 1999 come suggerito da Andreotti. Kohl, preavvertito, si dichiara a favore. Gli altri si adeguano. La nascita della moneta unica, il passo più importante che l’Europa abbia compiuto dalla sua creazione, viene sistemata
in poche ore nella mattinata del 9 dicembre all’apertura del Consiglio europeo. Il resto della riunione è speso a litigare sugli altri tasselli del puzzle, quello politico, economico, sociale, senza però arrivare a nessun risultato concreto. Se la Gran Bretagna non vuole un’Europa federale sotto nessun aspetto, la Francia pensa di poter incassare la fine del Deutsche Mark, sacrificato alla moneta unica, senza dover sacrificare a propria volta le illusioni della grandeur sull’altare di una vera unione politica, economica e militare.
Il “grande balzo in avanti” dell’Europa inciampa così sullo sgambetto francese. L’Unione nasce mutilata. La moneta unica non ha una controparte politica che la rappresenti e le dia corpo. Né una vera unione economica che la consolidi garantendo la convergenza dei sistemi—Paese. La moneta è orfana di un potere sovrano che non è mai nato. Saranno proprio queste mutilazioni a permettere, diciassette anni dopo, il grande attacco contro l’euro e i debiti dei Paesi più deboli. Di fronte ad un potere politico europeo frammentato e che reagisce con lentezza, i mercati scommettono sul fallimento della moneta unica e puntano migliaia di miliardi sulla sua disgregazione. Perderanno la battaglia, ma solo di un soffio, grazie all’intervento di Mario Draghi e della Bce e alla tardiva resipiscenza della Germania di Angela Merkel. Ma l’Europa pagherà il prezzo di quella vittoria con la più grave crisi economica del dopoguerra e con una macelleria sociale che lascia alcuni Paesi al limite del collasso.
Gli inglesi tornano a casa da Maastricht sicuri di aver stravinto: niente unione politica, niente carta sociale, nessuna prospettiva federale. E, ciliegina sulla torta, Londra ha ottenuto l’opt—out dalla moneta unica e potrà restare fuori dall’euro. Invece, sulle rive della Mosa, ha cominciato a germogliare un altro seme disgregatore: quello della lenta e dolorosa emarginazione britannica dall’Europa. Ci vorrà tutta la consumata abilità di Tony Blair per rinviare il momento della verità e frenare ancora la corsa europea verso l’integrazione. I padri di Maastricht sono perfettamente coscienti che la loro creatura è nata sghemba. Durante i quindici anni che seguono cercheranno di completare i capitoli mancanti di una Europa che nel frattempo continua ad allargarsi verso Est. Senza riuscire nel loro intento. Con il Trattato di Amsterdam, nel ’97, includono la Carta sociale e l’abolizione delle frontiere. Con quello di Nizza, nel 2000, cercano di adeguarsi all’allargamento senza riuscire a far crescere la dimensione politica. La Costituzione, firmata a Roma nel 2004, è un altro tentativo di ritrovare l’integrità perduta, ma viene silurata dalle bocciature dei referendum di Francia e Olanda. Il Trattato di Lisbona, nel 2007, segna ancora qualche timido passo in avanti, ma lascia l’Unione disarmata di fronte alla crisi finanziaria che arriva dagli Stati Uniti nel 2008.
La speranza con cui i capi di governo accettarono un accordo mutilato nella notte del 10 dicembre 1991 era che la moneta comune avrebbe costretto gli europei a darsi alla fine anche un governo comune. In effetti la tragedia della crisi ha lavorato in questo senso: nei cinque anni dell’assalto alla moneta unica, l’Europa ha messo più pezze alle falle che il Trattato aveva lasciato aperte di quanto abbia fatto nei quindici anni precedenti. Ma sono stati interventi dettati dall’emergenza: senza progetto né visione. Per ritrovare lo spirito perduto a Maastricht, bisognerebbe forse tornare sulle sponde della Mosa e, come gli ebrei sulle rive dell’Eufrate, contemplare i danni e le sofferenze che una Patria perduta prima ancora di nascere ha imposto ai suoi figli.