Murakami Haruki, la Repubblica 27/10/2013, 27 ottobre 2013
MURAKAMI JAZZ BAND
Se a un certo punto penso: «Be’, oggi magari scrivo qualcosa su Clifford Brown», prendo da uno scaffale un po’ di album suoi che non sentivo da tempo, li metto sul piatto del giradischi (sì, ho solo vecchi Lp in vinile, ovviamente), mi piazzo nella mia solita poltrona e lascio che la musica mi riempia le orecchie. Poi mi siedo alla scrivania e raccolgo in un testo della lunghezza opportuna tutte le idee che mi vengono in mente.
Il fatto che il mio studio sia al tempo stesso anche una sala d’ascolto in questi casi si rivela estremamente utile. Nello studio uso soprattutto delle vecchie e grandi casse della Jbl di tipo Back Loaded Horn — sono piuttosto antiquate, lo ammetto — e a pensarci bene sono già venticinque anni che la musica jazz per me ha il loro timbro. Di conseguenza, bene o male che sia, ormai non riesco a immaginarla con un suono diverso: il mio corpo si è completamente assuefatto alla loro vibrazione.
Mi rendo conto che al mondo ci sono tanti modi migliori di ascoltare il jazz, ma io preferisco farlo così, rannicchiato come una talpa in questa confortevole tana. La mia visione del jazz è molto simile, molto vicina a questo particolare suono, cioè è la mia visione individuale, personale. Credo che non evolva quasi. E dato che la nostra memoria per lunghi periodi gira sempre intorno agli stessi punti focali, finiamo col perdere di vista il corso degli eventi. Di conseguenza, se qualcuno di voi non fosse d’accordo con le mie osservazioni sui musicisti jazz presi in considerazione qui, non dia troppa importanza alle mie parole. Semplicemente mi sono divertito ad ascoltare dei brani musicali, e poi a scriverci qualcosa sopra. Se la cosa funziona e riesco a farvi sentire quella sorta di calore che provo nella mia tana, nulla potrebbe farmi più piacere. Keith Jarrett e John Coltrane non fanno parte della lista, ma vi prego di considerare quest’assenza un aspetto terribilmente raffinato del libro.
CHET BAKER
La musica di Chet Baker aveva un inconfondibile profumo di giovinezza. Molti sono i musicisti che hanno impresso il loro nome sulla scena del jazz, ma chi altri ci ha fatto sentire con tanta intensità il soffio della primavera della vita?
Nel suo modo di suonare c’era qualcosa che faceva nascere in petto un ineffabile, lancinante dolore, delle immagini e dei paesaggi mentali che soltanto la qualità del suo suono e il suo fraseggiare sapevano trasmettere.
Purtroppo però perse in breve tempo questa particolare facoltà. Senza quasi che ce ne accorgessimo, il suo splendore venne inghiottito dalle tenebre, come la bellezza di una notte di piena estate. E il degrado a cui inevitabilmente conduce l’abuso di droghe gli piombò addosso come un debito andato oltre la data di scadenza.
Baker assomigliava a James Dean. Gli assomigliava nei tratti del viso, ma anche nella natura carismatica e al tempo stesso distruttiva della sua esistenza. Entrambi divorarono voracemente un pezzo della loro epoca, e il nutrimento che ne trassero lo donarono con grande generosità al mondo, senza trattenerne nulla.
ART BLAKEY
Il mio primo incontro con il modern jazz avvenne al concerto Art Blakey and the Jazz Messengers, del 1963. Il luogo era la città di Kobe, io andavo alle medie e quanto al jazz non sapevo nemmeno che genere di musica fosse. Ma per qualche misteriosa ragione mi incuriosiva, così mi procurai un biglietto e andai al concerto. All’epoca accadeva talmente di rado che un famoso musicista straniero venisse in tournée in Giappone! Ricordo che era una fredda giornata di gennaio.
Quella sera compresi veramente la musica che sentivo? Forse era un po’ troppo difficile per me. In quel periodo ascoltavo soprattutto rock and roll, sia alla radio che sui dischi, al massimo arrivavo a Nat King Cole, quindi il mio livello musicale era evidentemente diverso. Quella volta sul palco vennero suonate
It’s only a Paper Moon e Three Blind Mice.
Conoscevo già entrambe le canzoni, ma nell’esecuzione dei Jazz Messengers erano molto lontane dalla melodia originale. Non riuscivo a capire perché la melodia dovesse venire spezzata e stravolta in modo così totale, non ne comprendevo la ragione, il criterio fondamentale e la necessità. Insomma, il concetto di improvvisazione non esisteva negli scomparti della mia conoscenza. Eppure c’era in quel concerto qualcosa che mi colpì, che mi commosse. Tornai a casa come in trance.
STAN GETZ
Fino a oggi mi sono appassionato a molti romanzi, mi sono dedicato a molta musica jazz. Ma in conclusione per me “il romanzo” è Scott Fitzgerald, e “il jazz” è Stan Getz. Pensandoci bene, questi due personaggi hanno forse alcuni aspetti in comune. Nella loro arte si possono ovviamente trovare dei difetti, lo riconosco senza problemi. Ma probabilmente è il prezzo da pagare in cambio della loro bravura, dell’impronta eterna che ci hanno lasciato. Ed è proprio per questo che insieme alla loro bravura, amo allo stesso modo i loro difetti.
NAT KING COLE
Ero sicuro di averlo sentito cantare anche South of the Border, e con questo ricordo in mente ho scritto il romanzo A sud del confine, a ovest del sole. Peccato che in seguito qualcuno mi abbia detto che South of the Border non è mai stata nel repertorio di Nat King Cole (perlomeno non ne ha lasciato registrazione alcuna). Incredulo, ho consultato la sua discografia, e con mia grande sorpresa ho scoperto che in effetti quella canzone nonc’era. Ha inciso moltissimi album di musica latino-americana, ma South of the Border no, mai.
Il che significa che ho scritto un intero romanzo basandomi su qualcosa di inesistente.
MILES DAVIS
Nella vita di qualunque persona c’è una “giornata perduta”. Una giornata in cui sentiamo di “aver superato un limite oltre il quale qualcosa dentro di noi è cambiato, e non torneremo mai più a essere quelli di prima”.
Quel giorno, avevo camminato a lungo per la città. Da una strada all’altra, da un tempo all’altro. Era una città che conoscevo bene, eppure l’avvertivo estranea. Fu soltanto quando si fece buio che pensai di andare in un bar e bere qualcosa di forte. Avevo voglia di un whisky con ghiaccio. Continuai ad avanzare lungo la stessa strada finché non trovai quello che sembrava un jazz bar, aprii la porta ed entrai. Era un locale lungo e stretto, con un bancone e tre tavolini, e nemmeno l’ombra di un avventore. La musica era jazz. Mi sedetti su uno sgabello al bancone, e ordinai un doppio bourbon. Mentre l’alcol mi scivolava giù per la gola, pensavo: «Qualcosa dentro di me è cambiato. Non sarò mai più quello di prima».
— C’è un brano che desidera ascoltare in particolare? mi chiese poco dopo il giovane barista, venendo a mettersi davanti a me.
Alzai il viso e provai a riflettere. Un brano che volevo ascoltare? Ora che me lo diceva, qualcosa che mi avrebbe fatto piacere magari c’era. Ma che genere di musica era adatto a quel posto? Mi sentivo del tutto perduto. «Four & More», dissi dopo averci rimuginato un po’ su.
Il barista estrasse l’album e lo posò sul piatto del giradischi. Era proprio la musica di cui avevo bisgno. Lo penso ancora oggi. Penso che era esattamente il disco che dovevo ascoltare in quel momento. La performance di Miles in quell’album è profondamente amara. Il tempo che ha scelto è stranamente veloce al punto da risultare aggressivo. Con il ritmo cesellato da Tony Williams in sottofondo, assennato come una candida luna di tre giorni, Miles conficca senza pietà il suo cuneo magico nelle incrinature dell’animo. Non chiede nulla né prende nulla. Nella sua musica non si può cercare compassione, né riceverne
sollievo.
BILLIE HOLIDAY
Da giovane ascoltavo spesso le performance che lei incise per tutti gli anni Trenta fino alla metà degli anni Quaranta. Era incredibilmente immaginativa, la sua capacità di alzarsi in volo faceva strabuzzare gli occhi. Il mondo danzava lo swing insieme a lei. La terra stessa dondolava. Non sto esagerando. La sua non era arte, era magia. Invece non percepivo una grande passione, quando ero giovane, nelle sue performance più tarde, dell’epoca in cui aveva ormai rotto la sua voce e logorato il suo corpo con l’abuso di droghe, e incideva dischi per la Verve. Forse era troppo lontana dalla mia anima. Soprattutto le registrazioni a partire dal 1950 per me erano troppo penose, pesanti, patetiche. Da quando ho compiuto trent’anni, però, e man mano che procedevo verso i quaranta, ho iniziato ad apprezzarle e a metterle sempre più di frequente sul piatto del giradischi. Senza che ci facessi caso, il mio spirito e il mio corpo hanno iniziato a cercare quella musica.
Dunque: cosa sono riuscito a sentire nel modo di cantare in un certo senso frantumato della Billie Holiday dell’ultimo periodo? Ci ho riflettuto molto. Cosa c’è lì dentro che ha la capacità di attirarmi con tanta forza? Può darsi che si tratti di una sorta di “perdono”, questa è la sensazione che provo di recente. Quando ascolto le canzoni di Billie Holiday degli anni Cinquanta, sento che lei prende su di sé in blocco tutti gli sbagli che ho commesso fino ad oggi, tutte le ferite che ho inferto finora a tante persone attraverso quello che creo, cioè attraverso la scrittura: e mi perdona.
DEXTER GORDON
Ho iniziato ad amare la musica di Dexter Gordon quando sono entrato all’università. Mentre gli altri studenti ascoltavano trasognati, nei jazz bar, John Coltrane o Albert Ayler, sui quali intavolavano discussioni infervorate, io andavo in estasi per il bebop vecchio stile. Il primo disco di Dexter Gordon che ho ascoltato era della Savoy, e risale all’epoca in cui Dexter era giovane e si lanciava liberamente, in modo temerario e spontaneo, nei suoi tipici fraseggi.
Naturalmente Charlie Parker aveva un suo modo speciale di essere prodigioso. Dexter però era uno dei miei eroi personali. Non so perché, bastava il suo nome a darmi le palpitazioni. Nel suono del suo sassofono potevo sentire “l’odore della polvere da sparo” del jazz. Cosí come il nome Alfa Romeo faceva vibrare il cuore di chi amava le automobili.
THELONIOUS MONK
C’è stato un periodo della mia vita in cui ero fatalmente attratto dalla musica di Thelonious Monk. Ogni volta che ascoltavo il suono particolare del suo pianoforte — che sembra scalfire un duro pezzo di ghiaccio — mi dicevo: «Questo è jazz». Il che costituiva per me un caldo incoraggiamento.
Un forte caffè nero, un portacenere pieno di mozziconi, delle grosse casse della Jbl, il libro che stavo leggendo in quel periodo (un Bataille, ad esempio, o un William Faulkner) in mano, il primo pullover dell’autunno, la solitudine di un angolo della città… ancora oggi queste scene dentro di me sono direttamente legate a Thelonious Monk.
Sono scene stupende. Anche supponendo che in realtà non siano legate quasi a nulla, sono conservate in bell’ordine come splendide foto nella mia memoria.
La musica di Monk era ostinata e soave, intelligente ed eccentrica, e per una ragione che non capivo bene, nel complesso estremamente precisa. Una musica che aveva un’incredibile forza di persuasione su qualcosa nascosto dentro di noi. Era paragonabile a un uomo misterioso uscito dal nulla che appare all’improvviso, posa sul tavolo qualcosa di straordinario, e scompare così, senza dire una parola.
HORACE SILVER
È una storia che risale a molti anni fa, ma una volta, quando ero liceale, misi da parte dei soldi e acquistai l’album Song for My Father.
Con la mia ragazza passai da un negozio di musica che si trovava nel quartiere di Motomachi a Kobe, e lo comprai. Il disco era pesantissimo. La mia ragazza non aveva un particolare interesse per il jazz, ma trovò la copertina bellissima. Eravamo in autunno, il cielo era sereno, e di nuvole in cielo non se ne vedevano, se non molto in alto, aguzzando la vista. Ricordo persino questi dettagli. Perché l’acquisto di quel disco costituiva per me un avvenimento importantissimo. A quei tempi la Blue Note non dava licenza al Giappone di stampare i suoi dischi, quindi quello che comprai era necessariamente un articolo di importazione, che mi costò la bellezza di 2800 yen (1 dollaro valeva 330 yen). In un’epoca in cui si poteva bere un caffè per 60 yen, era una discreta somma. Al di sopra della portata di un liceale. Così quando riuscivo a procurarmi un disco, l’ascoltavo con tutta l’anima. Come il cane che tiene la testa infilata nella tromba del fonografo, il marchio della Victor, tendevo spasmodicamente l’orecchio a ogni singola nota, alla lettera. Non arrivo a dire che quegli album fossero più importanti della mia ragazza, ma mi stavano a cuore più o meno allo stesso modo. Li toccavo, li annusavo, li guardavo da tutte le parti.
DJANGO REINARHARDT
C’è un film che mi piace molto, French Kiss. Kevin Kline fa la parte di uno strano francese che parla inglese con uno strano accento, e alla fine di una storia complicata riesce a mettersi con Meg Ryan, che è la tipica ragazza americana. Al termine di questo film a lieto fine scorrono i titoli di coda, mentre in sottofondo Kevin Kline nel suo francese nasale canta La Mer (senza accompagnamento). Canticchia con noncuranza, magari è a letto e ha appena fatto l’amore.
«Questa è Beyond the Sea, vero? Non sapevo che l’avessero anche tradotta in francese», dice da un angolo Meg Ryan. «No, questa in origine è una canzone francese», le risponde Kevin Kline. «Figurati! Ma se è una canzone di Bobby Darin! Ne sono sicura», insiste Meg .
Ho visto il film in un cinema americano, e quella conversazione finale, con solo le voci, l’ho trovata così divertente che quando gli altri spettatori sono usciti sono rimasto seduto e ho rivisto tutto il film dall’inizio alla fine, titoli di coda compresi, naturalmente. E mi è venuta una voglia terribile di ascoltare La Mer suonata da Django Reinhardt.