Sandro Rizzi, Corriere della Sera 27/10/2013, 27 ottobre 2013
«ORA CHE IL PASSO È DIVENTATO LENTO, LE PAROLE HANNO ANCORA PIÙ VALORE»
Prima. Trovavo che si parlasse troppo spesso di disabili. E quanti saranno mai? E le lettere sulle barriere architettoniche? Troppe.
Prima, se non trovavo un posto «residenti» per l’automobile, perché c’era il fatidico segnale... beh magari tiravo qualche accidenti.
Prima. Ero stato un giornalista. Poi sono stato un giornalista in pensione che si divertiva a fare fotografie agli eventi piccoli e grandi. Prima insegnavo alle università di Milano e Pavia: treni e tranvai, metrò, scale mobili bloccate non mi facevano certo paura. Non ero mai stanco. Prima non sentivo i miei settant’anni.
Improvvisamente il 2 gennaio 2012, mentre stavo finendo le vacanze a Parigi, un «fulmine» ha devastato il mio cervello. Immediato ricovero nella notte all’ospedale Saint Joseph: diagnosi ictus. Con un medio grado di afasia ed emiparesi destra. Mi curano per stabilizzarmi e con grande fretta di trasferirmi a Milano in un Centro specializzato, per paura che «perdessi» l’italiano, visto che là riuscivo a parlare soltanto francese, persino con mia moglie.
Dopo una decina di giorni, eccomi (passando per Niguarda Stroke Unit) al Don Gnocchi per la riabilitazione, che è durata cinque mesi, tra ricovero e day hospital. Poi le cure proseguono privatamente e sono ancora in corso: ho ricuperato moltissimo per la parte cognitiva, restano difficoltà per quella motoria.
Cammino ma con qualcuno accanto. Qui cominciano. Gli ostacoli. È difficile andare a trovare gli amici.
D’altro canto le visite degli amici da me si diradano. Molti coetanei sono morti; altri hanno problemi di salute a loro volta; i più incredibili sono coloro che hanno paura «del disabile», degli inevitabili cambiamenti di quel Sandro Rizzi che conoscevano, magari fin dalle scuole elementari o con il quale hanno diviso, gomito a gomito, tanti anni di lavoro e di vita. Un amico, prima di entrare in camera in ospedale ha chiesto a mia moglie: ma ha la bocca storta? Altrimenti io non entro. Era un medico... Sembra facile, ma dove trovi persone che accettino queste condizioni, perché ognuno ha giustamente la propria vita molto piena?
Ho provato a scendere senza nessuno, fino ai tre negozi sotto casa, ma non mi azzardo a spingermi oltre perché c’è un attraversamento di strada e per me da solo è un’impresa impossibile. Un pomeriggio ho fatto da solo il giro dell’isolato, un giorno sono arrivato dal giornalaio con un attraversamento, ma non l’ho più rifatto. Si prosegue per tentativi, e ci sono progressi. Ma anche tanta paura della strada.
In casa, come mi hanno raccomandato gli psicoterapeuti, non faccio pesare la mia situazione, ci scherzo su, anzi porto il caffè a letto a mia moglie come se fossi un trenino e grido «Ciuff-ciuff, Tuuttuù». Si direbbe che sono diventato, come diceva lo psicoanalista Elvio Fachinelli, un claustrofilo . Non è vero. Con il computer me la cavo per scrivere, ma anche per scaricare foto e trattarle: lentamente, si intende. Il mio maggior cruccio è l’autonomia, motoria. Non posso pretendere che sempre ci sia qualcuno che voglia portarmi a spasso. Io dovrei arrivare a conquistare il mio spazio da solo, spero di farcela: devo farcela a cancellare quei pochissimi metri che mancano a darmi sicurezza, perché in fondo con qualcuno accanto riesco già a farlo...
Il problema è psicologico. Reciprocamente. C’è nelle persone una sorta di paura, di incertezza nel parlare con un disabile, una paura che le paralizza, vuoi che quello parli troppo lentamente o che mozzichi le parole. Non c’è naturalezza. Ma io parlo quasi normalmente, mi piacerebbe che altrettanto naturalmente l’interlocutore si rivolgesse a me. In un rapporto che possa essere di parità.
L’uomo ha bisogno di socializzare, altrimenti si isola.
Non dimentichiamo che la vita è anche scambio di pensieri, che arricchisce. Come dicevano i saggi: se scambi due oggetti ognuno resta con un oggetto, ma se scambi un pensiero ognuno resta con due pensieri. All’ospedale, nei limiti della mia afasia, parlavo con il vicino di letto e ho scoperto tante cose interessanti. E ogni colloquio è un certo numero di stimoli che entrano nella testa. Perché i neuroni non si atrofizzino.
Ho cercato in Internet: se volessi seguire un corso, non avrei che l’imbarazzo della scelta (ceramica, inglese, decorazione floreale, cucina esotica, russo, cinese...). Se fossi un bambino, o uno sportivo, il ventaglio sarebbe ancora più ampio. Né faccio parte della generazione che vive attaccata al telefono: mi piace guardare in faccia la persona con cui parlo. Invece sono soltanto un po’ anziano, e cammino piuttosto male (ma i fisioterapisti mi consigliano di non usare la carrozzina per non perdere le capacità acquisite). Possibile che non trovi un interlocutore?
Come facevo quando ero integro? Cioè prima dell’ictus. Mi piacerebbe trovare dei nuovi amici, ecco. È un appello che forse non avrà mai risposta, perché lo capisco anch’io, non è facile. Quando stiamo bene tutto ci sembra normale, però alla minima difficoltà ci si scopre impreparati come me dopo la «guarigione», perché l’ictus ha lasciato tracce: e io sto solo cercando persone con le quali scambiare qualche parola in libertà. Senza tariffe all’ora, per il solo piacere di stare insieme. Come tutti i settantenni ancora lucidi. Molti a quanto pare.
Gli anziani spesso si sentono isole, i disabili in più sono atolli. Sono lì da vedere, difficili da viverci.
P.S. Ma forse faccio peccato a lamentarmi, in fondo non vivo in un istituto, ho una moglie affettuosa, una casa dove vivere, qualche soldo per pagare un’ora di conversazione. Pure...