Sergio Romano, Corriere della Sera 27/10/2013, 27 ottobre 2013
L’AVVENTURA ROMANA DEL CRIMINALE PRIEBKE
Il criminale Priebke é morto di vecchiaia a 100 anni e non a 50 per infarto: possibile che nessuno degli «addetti» si sia presa la briga di riflettere un po’ in anticipo su cosa fare alla sua morte? Possibile che dobbiamo sempre passare per un Paese di improvvisatori destinati a sfruttare la congenita furbizia per trovare la soluzione più idonea a bilanciare contenti e scontenti senza una scelta di comportamento chiara e dignitosa? Mi rivolgo a lei perché la sua esperienza internazionale le permette di capire meglio dei nostri connazionali più «statici» che cosa significa dare risposte accettabili a colleghi e amici non italiani.
Pierpaolo Merolla
Caro Merolla,
D evo confessarle che anch’io, se fossi stato ministro degli Interni o prefetto di Roma, non avrei immaginato il putiferio provocato alla morte di Priebke. Credo oggi, riflettendo sulla vicenda, di averne sottovalutato gli aspetti tipicamente romani. L’attentato di via Rasella, nel marzo del 1944, fu una dichiarazione di guerra contro l’occupante tedesco, l’evento che nelle intenzioni degli organizzatori avrebbe dovuto creare il clima favorevole alla nascita di un grande movimento popolare di resistenza. Non ho mai condiviso l’opinione di chi rimprovera a Rosario Bentivegna e ai suoi compagni di non essersi consegnati alle SS. Erano combattenti, avevano una visione rivoluzionaria del futuro italiano, volevano che la Resistenza fosse guerra di popolo e avrebbero commesso un errore strategico se avessero sacrificato se stessi per impedire la rappresaglia. La strage della Fosse Ardeatine, quindi, faceva parte delle prevedibili conseguenze di un piano a cui tutto si poteva rimproverare fuorché la sua lucida razionalità.
Ma il piano fallì. Il lutto popolare non si trasformò in sollevazione e non ebbe l’effetto di moltiplicare le operazioni offensive contro i tedeschi. Da quel momento l’attentato di via Rasella, per molti italiani, smise di essere un atto patriottico, e i morti delle Fosse Ardeatine divennero vittime di una strategia irresponsabilmente azzardata. Questo sentimento è diventato, con il passare del tempo, la bandiera di un neofascismo plebeo e vociferante, tipicamente romano, nato nelle borgate, recitato ogni domenica sugli spalti degli stadi, sempre a caccia di occasioni per menare le mani. E questo neofascismo, a sua volta, ha prodotto le prevedibili reazioni di un antifascismo altrettanto romano. Lo spettacolo a cui abbiamo assistito, nelle scorse settimane, mi è sembrato una specie di «West Side Story», un derby fra le due principali squadre politiche della capitale.
Nei suoi ultimi anni Erich Priebke deve avere assistito a questo spettacolo con un certo compiacimento. L’estradizione dall’Argentina aveva fatto di lui un pubblico criminale di guerra, ma gli aveva procurato il culto di un piccolo popolo di tifosi che lo avevano scelto come «führer» delle loro anacronistiche battaglie. Non basta. A questo teatro dell’assurdo l’Italia ufficiale ha fornito involontariamente il migliore dei palcoscenici. Per compiacere l’antifascismo e l’ideologia della Resistenza lo ha processato sino a quando la sentenza è stata, finalmente, quella desiderata. Ma ha mitigato la condanna negli anni seguenti concedendo a Priebke di passare il resto del suo tempo in una casa romana da cui poteva uscire con una certa libertà fra la generale indifferenza dei suoi vicini e di coloro che, verosimilmente, lo riconoscevano. Ho l’impressione, caro Merolla, che l’Italia gli abbia regalato i migliori anni della sua vita.