Luca Fazzo, il Giornale 26/10/2013, 26 ottobre 2013
LA BOCCASSINI HA STUFATO ANCHE I SUOI COLLEGHI
Probabilmente non ce l’avrebbe fatta ugualmente, perché le preferenze del Consiglio superiore della magistratura sembrano puntare quasi in blocco sul suo collega (e non proprio amico) Armando Spataro. Ma a mettere una pietra tombale sulle speranze di Ilda Boccassini di diventare procuratore della Repubblica di Firenze è verosimilmente l’esposto indirizzato al Csm che fanno partire contro di lei i giudici del tribunale di Busto Arsizio. Alla illustre collega, i magistrati del tribunale bustocco rimproverano alcuni giudizi quasi brutali espressi contro i «piccoli tribunali» durante un convegno: «Le toghe di provincia non sanno nulla di mafia», aveva detto la Boccassini, invocando una legge che portasse nei capoluoghi la competenza a celebrare i processi per criminalità organizzata.
A rendere scomodo per la dottoressa l’esposto dei giudici di Busto è il fatto che mette sotto accusa quelli che già altri colleghi, a partire dal suo ex capo Borrelli, avevano indicato in passato come i suoi difetti più vistosi: un eccesso di presunzione nei propri mezzi e nelle proprie ragioni, e una indisponibilità di fondo alla collaborazione e al confronto. Difetti non da poco, per chi si candida a guidare una Procura importante.
Ma come è potuto accadere che la Boccassini si lasciasse andare a giudizi pubblici tanto sferzanti, di cui non potevano sfuggirle le conseguenze? Per capirlo, bisogna probabilmente tenere presente il momento non facile che vivono le inchieste condotte dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano, il pool guidato dalla dottoressa. Sono le inchieste della nuova stagione delle retate contro il crimine organizzato, in particolare contro la ’ndrangheta, di cui per la prima volta è stata teorizzata l’esistenza di una «Cupola» simile a quella di Cosa Nostra. Ogni volta che in questi anni la rete della Dda milanese si è stretta intorno ai presunti uomini dei clan, l’eco mediatica è stato assai cospicua.
Il problema è che ora,uno dopo l’altro, i processi istruiti dalla Boccassini e dai suoi pm stanno arrivando al vaglio della Cassazione. E stanno, per ora, facendo una brutta fine. Per tre volte,nel volgere dell’ultimo anno,le sentenze di condanna emesse in primo o secondo grado sono state annullate e rispedite al mittente. Ci sono casi in cui è stato dichiarato inesistente il reato di associazione mafiosa, oppure si è preso atto che gli imputati erano già stati processati e condannati per gli stessi identici reati, o che non era nemmeno chiaro quali fossero gli obiettivi delle organizzazioni criminali. Così i fascicoli hanno iniziato a tornare a Milano. L’altro giorno si è riaperto e si è subito rinviato il processo- bis ai Barbaro e ai Papalia, da un quarto di secolo i nomi più evocativi dei clan calabresi a Milano. Ma nel frattempo vecchi esponenti delle «famiglie » sono tornati liberi.
Insomma, il rischio che alcuni dei maxi-blitz si rivelino, processualmente parlando, dei colossi dai piedi d’argilla c’è. È questo a preoccupare Ilda Boccassini. E tra le cause di questa fragilità la dottoressa ha individuato proprio il lavoro dei tribunali locali, che mancherebbero della esperienza e forse anche del polso per giudicare con la efficacia necessaria. Era già accaduto in passato, quando la Boccassini aveva accusato esplicitamente i colleghi di Voghera di avere sottovalutato la pericolosità del clan Valle. E torna ad accadere ora, dopo che ad affossare il processo al clan Paparo è stato, prima ancora della Cassazione, il tribunale di Monza.