Valerio Castronovo, Il Sole 24 Ore 26/10/2013, 26 ottobre 2013
CORREVA (MOLTO) L’ITALIA DEL 1958
Fin dalla metà degli anni Cinquanta erano comparsi i sintomi di quello che sarebbe poi stato definito da un giornale inglese il «miracolo economico» italiano. A innestare una marcia più alta fu l’industria, malgrado le apprensioni destate dall’adesione nel 1957 al Mercato comune europeo in quanto si temeva di non poter tenere testa alla concorrenza francese e tedesca. Invece, gli investimenti, l’occupazione e il valore aggiunto della produzione industriale registrarono, da quella data sino al 1963, incrementi mai raggiunti prima di allora. Tant’è che il contributo al Pil del settore manifatturiero si sarebbe attestato su una quota superiore al 45 per cento.
Ad agire da volano fu l’industria automobilistica, con in testa la Fiat, che all’inizio del 1958 (a tre anni dal lancio della "600") e all’indomani della messa su strada della "500", una vettura ancora più minuscola, vantava una produzione di oltre 300.000 vetture, quasi il doppio di quelle del 1954. La sua volata era appena cominciata. A sua volta l’Alfa Romeo si stava accingendo a siglare un accordo con la Renault e stava progettando la "Giulietta". Ma Valletta, pur esprimendo non poche riserve sull’incursione della casa francese nel mercato italiano, in realtà non era preoccupato più di tanto, anche perché nel novembre 1958 la Fiat avrebbe abbassato il prezzo delle sue utilitarie e inaugurato un sistema di vendita rateale. Comunque c’era, ancora per un triennio, una protezione doganale intorno al 45 per cento quanto alle vetture sino a 1.500 di cilindrata.
Insieme alle "quattro ruote", altri beni di consumo durevoli presero a correre. Fra il 1959 e il 1963 la produzione di frigoriferi crebbe da 370 mila a un milione e mezzo, quella di lavatrici da 72 mila a 262 mila, quella di televisori (che nel 1954 non era più di 88 mila) salì a 634 mila; mentre le macchine da scrivere portatili e quelle contabili, costruite dalla Olivetti, aumentarono rispettivamente di nove volte e di oltre sessanta volte. Dal canto loro, la Montecatini, la Pirelli, la Edison, la Falck, la Tosi, la Società Metallurgica Italiana, la Marzotto (per citare alcune delle società private più importanti) inanellarono un successo dopo l’altro.
A fare da protagonista fu anche l’Iri, che svolse un’azione propulsiva nei settori della cantieristica, della metalmeccanica, dell’impiantistica, della telefonia e soprattutto in quello siderurgico. La produzione d’acciaio crebbe entro il 1960 a più di otto milioni di tonnellate rispetto ai tre del 1951. Decisivi a riguardo furono i vantaggi derivanti dalla partecipazione alla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, per via della maggior stabilità dei prezzi del rottame e del rinnovamento degli impianti imposto dalla concorrenza dei partner della Ceca nel mercato interno. Gli stabilimenti di Cornigliano, Piombino e Bagnoli vennero orientati verso la fabbricazione di acciai speciali nell’ambito del programma concepito da Oscar Sinigaglia per una produzione a ciclo integrale dal minerale ai laminati.
A sua volta, l’Eni stava assaporando il successo conseguito nel 1957 con la firma dell’accordo "rivoluzionario" con l’Iran che, riconoscendo a Teheran in pratica il 75 per cento di proventi dall’estrazione del greggio attraverso una società in compartecipazione, aveva cominciato ad affrancare l’Italia dalla sudditanza delle "Sette Sorelle". Se la crescente domanda interna costituì inizialmente il trampolino di lancio per il boom economico, dal 1958 in poi fu soprattutto l’aumento delle esportazioni ad agire da traino per lo sviluppo, grazie alla collocazione all’estero di prodotti finiti più complessi e con più valore commerciale. Tant’è che la quota dell’export italiano, sul totale dei paesi dell’Oece (Organizzazione per la cooperazione economica europea), dal 4,7 per cento del totale passò al 7,3 entro il 1963 e ciò fu dovuto, per quasi il 60 per cento, alla maggiore competitività (in termini di prezzi relativi decrescenti delle merci), determinata soprattutto, secondo la Banca d’Italia, dallo scarto fra l’aumento della produttività e quello del costo del lavoro, oltre che dalle economie di scala e dalla relativa stabilità dei prezzi delle materie prime, essenziale per un’economia prevalentemente di trasformazione come la nostra.