Antonella Scott, Il Sole 24 Ore 26/10/2013, 26 ottobre 2013
LA GROENLANDIA APRE ALLA PRODUZIONE DI URANIO
La decisione è venuta dopo 5 ore di dibattito animatissimo, al Parlamento di Nuuk: ma è destinata a far discutere molto più a lungo, mentre le grandi compagnie minerarie internazionali, dall’Australia alla Cina, gioiscono. Con un solo voto di differenza, 15 a 14, la Groenlandia ha voltato pagina. Abbandonando la cosiddetta "tolleranza zero", renderà possibile l’estrazione di terre rare dal proprio territorio, e dei materiali radioattivi, come l’uranio, che le accompagnano. Va in archivio un bando, ereditato dalla Danimarca, in vigore dal 1988.
Una scelta sofferta, cui il governo della socialdemocratica Aleqa Hammond - eletto in primavera - è arrivato spinto dalla necessità di rilanciare un’economia di 57mila abitanti dipendenti dalla pesca e dai sussidi di Copenhagen, che garantisce a questa nazione autonoma, che tuttavia continua a far parte del Regno danese, più della metà del budget annuale. Una dipendenza che il governo di Nuuk conta di ridurre sfruttando di più le proprie risorse naturali, aprendo agli investimenti stranieri. «Non possiamo accettare che disoccupazione e costo della vita aumentino - ha detto la signora Hammond in Parlamento - mentre l’economia è bloccata. È necessario che superiamo la "tolleranza zero" verso l’uranio».
La Danimarca dovrà dare il proprio assenso. Dopo il passaggio della Groenlandia all’autogoverno, nel 2009, il governo danese è rimasto responsabile solo per la difesa e la politica estera del territorio artico. Ma come spiega un comunicato del ministero degli Esteri, la Danimarca incoraggia uno sviluppo dell’industria mineraria che può portare la Groenlandia tra i primi esportatori al mondo di terre rare, strappando alla Cina un semi-monopolio che copre il 90% della produzione mondiale. E tuttavia l’estrazione e l’esportazione di uranio hanno una dimensione strategica che implica coordinamento tra Nuuk e Copenhagen. Prima ancora, è l’opposizione locale a farsi sentire: la scelta del nucleare non può essere fatta senza coinvolgere più direttamente l’opinione pubblica, sostiene tra gli altri Sara Olsvig, deputato dell’opposizione.
Il punto su cui tutti sono d’accordo è l’importanza della creazione di nuovi posti di lavoro. Ma accanto alle obiezioni degli ambientalisti, che temono ripercussioni sul fragile ecosistema artico, preoccupa anche l’arrivo, accanto agli investimenti, di manodopera straniera. Cinese, in particolare, preferita dai grandi gruppi per il costo inferiore. Portare in Groenlandia 3.000 lavoratori cinesi sembra l’intenzione della britannica London Mining, che proprio due giorni fa ha ottenuto dal ministro dell’Industria Jens-Erik Kirkegaard il via libera della Groenlandia al suo più grosso progetto commerciale, del valore di 2,6 miliardi di dollari. Una licenza trentennale di sfruttamento di un gigantesco deposito di minerali di ferro a 150 km da Nuuk, nel quale la compagnia britannica intende coinvolgere altri partner stranieri, probabilmente proprio cinesi. Il progetto Isua, scrive London Mining nel proprio sito, è destinato «a produrre ogni anno 15 milioni di tonnellate di concentrato di minerale di ferro di altissima qualità per l’industria siderurgica». «Questo è davvero un momento storico per la Groenlandia», ha detto il ministro Kirkegaard.