Mirella Serri, TuttoLibri, la Stampa 26/10/2013, 26 ottobre 2013
“MAJAKOVSKIJ? NESSUN COMPLOTTO”
[Serena Vitale]
Dalla Russia con amore… Serena Vitale da qualche giorno è rientrata a Milano proveniente da Mosca, città-colabrodo per i numerosi lavori in corso. Ma già vorrebbe ritornarvi. Irrequieta, spiritosa, brillante, donna forte e coraggiosa che non ha esitato a farsi beffe delle autorità sovietiche per trasportare dattiloscritti proibiti nella sporta per le arance, non trova pace. La doppia «cittadinanza» o identità è croce e delizia. Fin da ragazzina pensava che in famiglia allignasse un segreto: «”Dimmi la verità, mamma, io non sono figlia di papà, ma di un russo, uno di quelli che erano nella base militare Nato di Brindisi…”. Mamma stava molto male, si fece l’ultima risata e poi chiuse gli occhi per sempre, non senza aver concluso: “Ma a Brindisi non c’era nessun russo”». Ride anche lei a questo ricordo, la zarina della letteratura che viene dal freddo: con saggi, traduzioni e prefazioni si è cimentata su Josif Aleksandrovic Brodskij, Aleksandr Sergeevic Puškin, Vladimir Nabokov, Marina Ivanovna Cvetaeva, Sergej Esenin, Michail Bulgakov, Isaak Babel. E anche se nelle sue vene non scorre linfa slava, la Russia ce l’ha dentro di sé. «Ogni giorno in Puglia vedevo entrare e uscire da casa giovanotti biondi, belli e robusti, a cui mio padre musicista dava lezioni e che strimpellavano Suona balalaica, che parlava di calor, amor, gioventù. Erano militari che stavano preparando un musical. Sufficiente a farmi fantasticare che quegli inglesi e americani venissero dalla terra delle steppe. Nella mia famiglia, inoltre, sono tutti slanciati, con incarnato e capelli scuri, piuttosto avvenenti (papà era una via di mezzo tra George Clooney e Humphrey Bogart), mentre io sono bionda, piccola... per anni sono stata sicura di essere stata un frutto del peccato».
Un lungo amore quello che porta l’autrice de Il bottone di Puškin (Adelphi), tradotto in sei lingue, alle sfide più difficili. Ora sta per mettere la parola fine a una delle storie più discusse, a un groviglio tra i più intricati: ne L’incidente è chiuso (uscirà da Skira) affronta il mistero della morte di una straordinaria icona del Novecento, Vladimir Majakovskij.
Documenti, illazioni e relazioni complottiste: negli ultimi anni sono apparse tante rivelazioni per ipotizzare che lo scrittore futurista sia stato suicidato, ovvero che si sia ucciso istigato dalla polizia politica di Stalin, o addirittura che qualcuno abbia premuto il grilletto contro di lui.
«Majakovskij è stato un poeta che a lungo non ho percepito né vicino né in sintonia con i miei orientamenti. Lo leggevo in un librino degli Editori Riuniti con un’aria grigia e spenta e non mi convinceva per nulla il fatto che avesse messo la sua arte, così ricca, al servizio della rivoluzione bolscevica. Traducendolo invece mi sono resa conto della sua eccezionale forza. Non amo i gialli, i thriller, in questo nuovo libro non indosso i panni del detective. Anzi smonto l’idea del complotto, cerco di evidenziare gli elementi umani, l’amore di Majakovskij per la vita e anche per la morte, il suo carattere, la battuta folgorante, l’ipocondria e la consapevolezza del suo grande valore».
La sua ammirazione per l’Est è nata sulle note di quel famoso «Suona Balalaika»?
«Io ero precocissima, a quattro anni ero come una bambina di seconda elementare. Assai presto sono stata catturata dai vari Tolstoj e Dostoevskij sparsi per casa. Una volta, in bagno, sulla cesta della biancheria, trovo Il viaggiatore incantato di Nikolaj Leskov e mi incanto pure io. E poi a Brindisi, ovviamente, non avevo mai visto la neve. E in quei libri ce n’era a bizzeffe. Un altro racconto che mi ha fatto passare le notti in bianco è stato Lolita di Nabokov. A suggerirmelo fu mio zio, omosessuale, a cui è capitato di vivere in quel contesto difficile che era Brindisi nel dopoguerra (mio nonno riferendosi alle sue preferenze sessuali gli diceva: “ti mando in America a farti curare”). Lui, però, con grande disinvoltura e coraggio si confrontava con la sua diversità ed era amato da tutti. Gli devo tanti insegnamenti di natura culturale, intellettuale ma anche esistenziale. Il vero coup de foudre per la letteratura russa è arrivato dopo l’incontro con Angelo Maria Ripellino. Mi ero iscritta all’università, a matematica. Per caso sono approdata a lezione da quel prof antiaccademico e aperto verso ogni manifestazione dell’arte contemporanea, che aveva presentato su La Fiera Letteraria le poesie di Anna Achmàtova, messa al bando da Stalin, e si dedicava alla ricerca di analogie tra letteratura, pittura, cinema, jazz. Quando ci siamo seduti in dieci studenti attorno a una tavola rotonda come quella di re Artù ho capito qual era la mia vocazione».
Cosa le ha insegnato la sua vita in Urss?
«La prima volta che vi andai feci l’errore di restarvi un anno di seguito. Troppo. Studiavo Andrej Belyj, poeta simbolista, e una volta al mese dovevo svolgere una relazione sullo stato di avanzamento della mia ricerca. Il mio tutor mi guardava con disprezzo in quanto allieva dell’indipendente e per questo anche un po’ delinquente Ripellino e organizzava una claque per mettermi alla gogna. Però sono stati anni formativi. Ero controllata dal Kgb, ero sotto osservazione da parte dei miei insegnanti, all’università ero seguita costantemente. Ogni volta che uscivo dalla biblioteca Lenin - dove chiedevo quindici libri e me ne consegnavano uno - mi sembrava di essermi liberata di una cappa di orrore».
Il rientro in Italia? Movimentato?
«Dovevo sempre affrontare un jet lag spirituale, mi dovevo riambientare per capire quello che stava accadendo. Così, per esempio, nel ’68, con due giovani amici francesi avevo intuito che in Francia c’era qualcosa di strano. Quando sbarco a Roma, corro all’università, vado a trovare Ripellino e scopro che è affiancato da due cinesi. Penso a un’invasione del Celeste Impero. “Parliamo in ceco” mi sussurra il prof. Erano due studenti maoisti e, in casacca blu, controllavano il corretto svolgimento degli esami. Per molti anni, poi, mi è stato sempre più difficile varcare la frontiera dal momento che mi avevano tolto il visto. Riuscivo a intrufolarmi nei viaggi organizzati dal Sindacato scrittori. Andavo a trovare il figlio di Boris Pasternak che era un clone del papà nel suo giubbotto con interno di pecora. In casa sua, per timore delle microspie piazzate ovunque, parlavamo accompagnati dallo scorrere dell’acqua del rubinetto scrivendo su una lavagnetta. A Milano e nella Capitale c’era una fiorente società letteraria ad accogliermi. Peppo Pontiggia era sempre curioso di quello che succedeva oltre cortina e a Roma ci si ritrovava alla trattoria la Carbonara, a Piazza Farnese, con Giorgio Caproni, Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini. Dalle numerose domande di quest’ultimo mi sono convinta che stesse covando qualcosa, forse un film da Guerra e pace».
Nostalgia?
«Certo, anche perché adesso questo romanzo non posso più nemmeno farlo leggere ai miei studenti. E’ considerato troppo lungo!».