Domenico Quirico, TuttoLibri, la Stampa 26/10/2013, 26 ottobre 2013
CHE MENZOGNA L’AFRICA DEI SELVAGGI
E se sbagliassimo tutti, se la monumentale, ingombrante Storia della civiltà africana di Leo Frobenius (che Adelphi ora ripubblica) in realtà fosse soprattutto uno straordinario libro di viaggio? L’etnologo tedesco compì dodici spedizioni nel continente tra il 1904 e il 1932, dal Fezzan al Capo, dal Sudan al Congo, dalla Guinea al Kalahari. Quando partì la prima volta si lasciò dietro le arroganti certezze della Germania guglielmina; quando attraversò la Libia, ed era l’ultima volta, bruciavano a Berlino già i fuochi sinistri del Terzo Reich.
Chi ha viaggiato in Africa può capire: Lei ti batte nel petto e tiene desti tutti i tuoi demoni, quando torni a casa il cuore non riesce a riabituarsi al quotidiano, ci metti mesi a decidere chi vuoi essere. Non puoi mai dare per finito un libro di viaggio, ed è questo che fa battere così forte la mia anima quando chiudo Frobenius. Forse, come lui, non tornerò più a quelle savane, ai fiumi belli e terribili, ai duri deserti assolati. Ma so, come lui, che viaggiare ti allunga la vita, la riempie di volti e di paesaggi, di canti di suoni, di leggende e di orizzonti che ignoravi. Le tue vecchie idee crollano e ne nascono di nuove. Viaggiare in fondo è scoprire che tutti sbagliano, quando viaggi le tue convinzioni cadono con la stessa facilità degli occhiali, solo che è più difficile rimetterle al loro posto con un semplice gesto.
Queste non sono pagine di un libro di storia: non ci sono date e fatti, ma molto di più, la commozione. Viaggiare infatti è anche una sospensione nel vuoto e per questo inevitabilmente suscita una sensazione di eternità. Il viaggio è una spazio in continuo movimento, soprattutto dove sembra fermarsi solo il tuo tempo interiore.
Il secolo si apriva come ricorda lo scienziato tedesco, con una concezione del mondo «simile a un orario ferroviario o a un listino di borsa… il credere nel dato di fatto era una professione di fede…».
E l’Africa? La terra dei selvaggi dei primitivi dei senza storia. Dove lui, come un voyeur impudico, notava quello che succedeva intorno, ascoltava la voce dei vecchi che distillavano saggezza sotto l’ombra del sacro baobab. Ma non solo questo, che era in fondo solo raccogliere e catalogare. Si lasciava coinvolgere, si stupiva, si commuoveva, sentiva la tenerezza degli uomini e anche il timore davanti all’imprevisto. Si osservava mentre guardava fuori di sé.
Ci sono due libri che hanno cambiato lo sguardo dell’Occidente sull’Africa. Il primo uscì a Londra nel 1885, lo stesso anno de L’isola del tesoro: Le miniere di re Salomone, uno dei libri più letti di tutti i tempi, in fondo anche questo un libro per ragazzi. Lo aveva scritto un giovanotto frustrato, che aveva invano progettato di diventare uno statista o un eroe dell’impero; Henry Rider Haggard. Oggi è sconosciuto: allora fece sognare l’Africa alla gioventù inglese e americana. E non solo, incoraggiò i politici inglesi a estendere l’impero e diede ali ad affaristi ambiziosi come Cecil Rhodes.
L’altro libro fu, nel 1933, La storia della civiltà africana. Era ancora un goffo rozzo gigante: o «terra morta … una mare di sabbia pietre rocce, un bacino sconfinato che vive nella vampa bruciante del sole...»; o «un cielo di acciaio su una steppa che si estende per chilometri, terreno scuro erba erba erba.. qua e là una acacia a ombrello...»; oppure «foresta, un tetto di foglie senza fiori e una aria greve senza luce...». E gli uomini? Barbari semibestiali, popolo selvaggio e depravato che aveva prodotto solo qualche feticcio, arte barbarica del diavolo… Frobenius affiancò in modo rivoluzionario la parola Africa alla parola civiltà, che altro non è che l’atto di recitare la realtà, di offrire la propria visione del mondo. E poiché sente e crea, merita rispetto attenzione imitazione. Cade il velo: l’Africa dei selvaggi non era che menzogna per giustificare la tratta.
Certo, c’è del vecchiume, troppa enfasi, teorie caduche come quella dei cicli delle civiltà. Ma è scritto da chi ha fiutato toccato e gustato una civiltà. Che nella luce nuda delle mattine d’Africa si è stupito di trovare villaggi le cui vie principali erano per chilometri fiancheggiate da quadruplici file di palme e le capanne erano capolavori incantevoli di intreccio e di intaglio. Che ha toccato con le mani ogni tazza ogni pipa ogni cucchiaio, le splendide armi di ferro di rame con l’impugnatura in pelle di serpente, che ha ascoltato «lo spirito africano», come chiamava migliaia di novelle leggende miti.
Tutti gli africani, da sempre sono in perpetuo movimento. Come dice un loro proverbio viaggiare è ballare, adattare il tuo passo a quello degli altri, girare nel vuoto seguendo suoni e ritmi sconosciuti. E’ il ritmo anche dei grandi scrittori: danzare voltando le spalle alla paura, scrivere ciò che desta la tua attenzione la tua meraviglia la tua inquietudine, frugare nell’ignoto con il dito dell’audacia. Ballare, scrivere, c’è forse libertà più grande?