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 2013  ottobre 26 Sabato calendario

SULLE VIE DI PREUSS LO SCALATORE FILOSOFO


Karl Maria Brandauer è seduto in riva al lago di Altausee, pochi chilometri dal suo paese natale in Stiria, Austria, e dice del suo dubbio da ventenne: «Non si parlava che di lui, tanto che mi chiedevo se non fosse meglio fare l’alpinista piuttosto che l’attore».
E aggiunge che fra le donne di quella regione quel «lui», Paul Preuss, è tramandato come una leggenda. Il grande attore austriaco compare sorridente nel film-documentario di Lutz Maurer, proiettato per la prima volta in Italia sullo schermo gigante dell’Ims (International Mountain Summit) di Bressanone. Voce narrante e intervistati (tra cui Reinhold Messner) ripercorrono la breve vita di Preuss, l’alpinista cancellato per decenni dall’Austria perché ebreo.
Un non senso possibile negli anni del Terzo Reich, nonostante Preuss, fra gli alpinisti più importanti di tutti i tempi, fosse un raffinato pensatore, un inventore di aforismi indelebili e il padre del moderno «free climbing». Morì il 3 ottobre del 1913 sulla parte di cresta verticale del Mandlkogel, al confine tra l’Alta Austria e la sua Stiria. Gli fu testimone soltanto una nube che avvolgeva la montagna. Aveva 27 anni e un curriculum di prime ascensioni solitarie impressionante. Tra queste, nell’estate del 1911, il Campanile Basso del Brenta e la torre che da allora prende il suo nome sulle Tre Cime di Lavaredo. Senza chiodi, con una quasi inutile corda di canapa che gli penzolava dalla vita. Preuss, un’infanzia triste per una malattia che l’aveva paralizzato, spinse i suoi occhi azzurri nella vita, divorandola. Eppure c’è chi lo tramanda come personaggio cupo e folle.
Nel film dell’austriaco Maurer lo reinterpretano in panni moderni due alpinisti, che in parte seguono la filosofia purista, il tedesco Alexander Huber e l’altoatesino di Vipiteno Hanspeter Eisendle. Nella pellicola commemorativa Huber risale la via di Preuss sulla Cima Piccola di Lavaredo e Eisendle il Campanile Basso. Lo fanno senza chiodi né corda, senza alcuna sicurezza.
Sul palco dell’Ims, Eisendle ha spiegato così l’eredità di Preuss: «Il suo messaggio è che il grado di difficoltà non è importante, ciò che conta è l’esposizione, l’abisso». Significa essere appesi alla roccia nel vuoto, seguendo la verticalità e non avere altro che la sicurezza di sè. L’arrampicata «in libera», cioè senza chiodi, che ha fatto parte del pionierismo è stata via via allontanata dalla tecnologia: attrezzature sempre più sofisticate, fino ad arrivare alle assicurazioni di oggi che non si piantano più, ma s’infilano nelle fessure delle pareti. Le immagini degli odierni alpinisti ci rimandano uomini con la vita circondata da ferraglia, moschettoni, friends, rinvii, corde e cordini. Preuss viveva in un’epoca in cui i moschettoni non c’erano e i chiodi erano in realtà dei ganci o dei fittoni infilati nelle crepe. Ma lui ne rifiutava l’uso con un motto ricordato da Messner: «Posso fare tutto ciò di cui sono capace». Nulla di presuntuoso, anzi, il senso del proprio limite. Oltre, Preuss non andava e soprattutto saliva e scendeva (inimmaginabile!) sulla stessa via.
L’alpinismo dei nostri giorni vive una sorta di paradosso: da un lato corde e «ferri», dall’altro la riscoperta dell’arrampicata naturale, uomo e roccia. Così Huber è salito sulla direttissima della Cima Grande di Lavaredo, così Eisendle fa, senza clamore e nonostante i suoi 57 anni, su pareti vertiginose delle Dolomiti della Val Badia, piuttosto che della Val Gardena. Il regista Maurer lo definisce «alpinista silenzioso», ma lui smentisce: «Ma no, parlo molto volentieri, è che non mi piace essere condizionato dai mass media, tutto qui. Dell’alpinismo mi interessa la dimensione umana. Con le attrezzature di oggi siamo tutti un po’ robot. Più ti spogli degli attrezzi e più sei tu. Così era Preuss. Anch’io faccio scalate con ogni sicurezza possibile, ma quello è uno sport e l’uomo diventa quasi una macchina. Fare alpinismo è essere a tu per tu con la montagna. Esistono diversi modi per vivere di montagna, io ho scelto di fare la guida. Ho capito scalando con Messner o con Chris Bonington, quando avevo 25 anni, che ero molto bravo, ma non facevo parte dell’élite dei migliori. Ho scelto di dare agli altri la passione, oltre che tenermi l’alpinismo per me. Ne sono orgoglioso».
Preuss torna da quel lontano passato grazie anche a una mostra in Austria (finita pure a Bressanone) e mette in discussione il superamento del limite, la cima ad ogni costo. Ma non chiamatelo eroe. Lutz Maurer dice alla platea di Bressanone: «I veri eroi sono quelli che salvano la vita degli altri».