Mattia Feltri, la Stampa 26/10/2013, 26 ottobre 2013
L’ULTIMO RIBALTONE DEL LEADER
Il 2 ottobre, quando Silvio Berlusconi si alzò in Senato a concedere la fiducia al governo, Enrico Letta disse: «È un grande».
Era passata mezzora, forse tre quarti d’ora dalla riunione di gruppo in cui era stato deciso che no, no e poi no; e l’ottimo Renato Brunetta era sceso in sala stampa per annunciarlo con la forza sprezzante della consapevolezza: «No, no e poi no». È un grande, disse il premier a fior di labbra, e glielo leggemmo al ralenti. Se la rideva, ed era sembrato grottesco a tutti noi quel vecchietto con la faccia buona per ogni circostanza, per ogni autoribaltone, e dietro i suoi sconcertati, o proprio allibiti perché qualcuno nulla sapeva. Bei pollastri. È stato esattamente in quell’istante che il Sire del centrodestra aveva cominciato a riflettere su come riprendersi il baricentro delle cose. E un sistema poteva essere quello di abbracciare i ribelli per soffocarli.
Giovedì poco prima di mezzanotte alcuni parlamentari hanno raggiunto Berlusconi reduce da una chiacchierata con il capo dei governativi, Angelino Alfano, a palazzo Grazioli. Fra gli ospiti c’era Deborah Bergamini, amica di una vita. Il Sire non li ha accolti col muso lungo di queste settimane. Non era recriminatorio né buio, depresso nemmeno un po’. Ha sorriso da piacione. «Buon compleanno, Deborah». Non se ne era dimenticato: era il radar dei tempi belli. Aveva pure convocato uno dei suoi cantanti perché intonasse alla signora «Happy birthday». Si sentiva come il generale in cui soccorso era arrivata la cavalleria, nel momento preciso in cui si sentiva sconfitto. Era la cavalleria guidata da Raffaele Fitto.
Come in tutte le vicende della vita, sono gli affari privati a fare la differenza. Raffaele Fitto era stato il ragazzo d’oro di Forza Italia. Il giovanotto su cui Berlusconi aveva posato gli occhi per costruire un futuro radioso. Poi arrivò Angelino Alfano. Poco a poco, Fitto si sentì ai margini. E non se lo spiegava. Siamo coetanei (Fitto ha solo tre anni di più), diceva. Siamo stati ministri. Siamo coordinatori delle nostre regioni – la Puglia lui, Alfano la Sicilia. Con la differenza che Fitto spesso vince le elezioni, Alfano arriva da un disastro dietro l’altro. Che cosa ha Angelino che io non ho? Eppure conservavano un rapporto dignitoso, almeno finché il reggente del Pdl non decise di affidare a Brunetta il ruolo di capogruppo a Montecitorio. Fitto ci sperava per sé, e la giurò al sodale ormai diventato avversario. La sua occasione è cominciata il 2 ottobre. È stato allora che ha trovato la sua terza via: né falco né colomba, ma lealista. Né kamikaze né mercante, né sgherro con cui combattere verso la bella morte né ambasciatore per la resa. È andato quasi quotidianamente a palazzo Grazioli. Ha spiegato a Berlusconi che come Cesare si era portato Bruto in casa. Che i governativi aspettavano soltanto l’aggravarsi dei suoi guai per prendersi il partito, oltre che quel po’ di esecutivo. Che non era necessario morire né suicidarsi. Erano ragionamenti su cui Berlusconi rimuginava da un po’.
È vero, Daniela Santanché ormai è in panchina. Un tempo andava e veniva dalla residenza romana di Berlusconi come le piaceva. Ora non più. Ma Denis Verdini è sempre lì. Non c’è sera nella quale non sieda al tavolo col Capo per fare il punto. Gli ultimi sondaggi dicono che Forza Italia va meglio del Pdl, e questo si sapeva. Ma dicono anche che il manipolo alfaniano è accreditato di una percentuale che va dal tre al quattro. Alle europee, dove la soglia di sbarramento è al quattro, rischia di restare fuori. Quasi come Gianfranco Fini, meno di Mario Monti. Spesso si commentano gli avvenimenti di giornata, se siano buoni oppure no. L’intervista di Gaetano Quagliariello al Messaggero, nella quale si raccontava della lista di ventiquattro senatori pronti a sostenere il gabinetto Letta, è di quelle che hanno smosso Berlusconi. Si è sentito sotto ricatto, offeso da quei toni caporaleschi e sbruffoni. La fissazione a due anni della pena interdittiva stabilita a Milano gli ha confermato che nessuno – o quasi – è disposto a tendergli la mano. I segnali da Scelta civica di Mario Mauro e Pierferdinando Casini c’entrano poco, ma sono la prova che gli schieramenti sono in movimento. Ha infine deciso che obbligare i governativi alla mossa senza ritorno era il minore dei mali. Almeno da ora in poi saprà su chi contare e su chi no. Niente è impossibile. A Milano hanno già scritto e sistemato due discorsi per Marina, sebbene lei della politica continui a non volerne sapere, e pensa che sarebbe più saggio espatriare. Ma intanto Forza Italia è in campo. Se ci sarà da muovere guerra, la si muoverà.