Michele Smargiassi, la Repubblica 26/10/2013, 26 ottobre 2013
IL FOTOGRAFO DEL LAGER
Come il Crematorium, anche lo studio fotografico di Auschwitz era organizzato per smaltire con rapidità ed efficienza un numero elevatissimo di corpi di untermensch. Lo sgabello per la posa, un cubo di legno, veniva fatto girare su se stesso da un pedale azionato dal fotografo che così, senza allontanarsi dalla fotocamera, in pochi secondi impressionava le tre “viste” d’ordinanza: fronte, profilo e trequarti. Ma il kapò Maltz ne approfittava per un suo divertimento extra: quando l’internato accennava faticosamente ad alzarsi, con un colpo al pedale lo proiettava a terra violentemente, tra le risate degli aguzzini annoiati.
Non rideva Wilhelm Brasse, il fotografo di Auschwitz. Confusamente, forse, intuiva che quello scherzo crudele, in fondo insignificante rispetto al resto, svelava la natura del compito a cui era stato assegnato: il prelievo forzoso dell’identità, tappa della degradazione che era premessa all’eliminazione. La camera oscura come anticamera della camera a gas. Brasse era un internato: polacco, non ebreo, anzi ariano, ma renitente all’arruolamento nella Wehrmacht, gli si era aperto davanti il cancello fatale, ma per lui la scritta che vi campeggiava sopra, “il lavoro rende liberi”, per una volta diceva la verità. Il suo mestiere lo salvò. In cambio lui, rischiando la vita, salvò dalla distruzione e preservò per i nostri occhi allucinati i documenti del “male assoluto”, oltre cinquantamila ritratti di sterminandi, e visioni di altri orrori.
La vita di Wilhelm Brasse, Il fotografo di Auschwitz,
è ora narrata da Luca Crippa e Maurizio Onnis (Piemme, 336 pagine, 14,90 euro) nella formula del romanzo-verità che sembra incontrare il ricorrente favore degli storici della Shoah alle prese con fonti visive tanto forti quanto ambigue (vedi Il Bambino di Dan Porat, ricostruzione romanzata dello sterminio del ghetto di Varsavia condotta partendo dai famigerati album- souvenir del massacratore Stroop).
In verità, Brasse non fu l’unico fotografo dei Campi: come lui lavorarono ad esempio Georges Angéli a Buchenwald, Francisco Boix a Mauthausen. La segnaletica dello sterminio, che includeva la catalogazione fotografica minuziosa delle vittime, dipendeva da una direttiva generalizzata. Ma è grazie a Brasse che sappiamo come tutto ciò avvenisse in pratica. Basato sui racconti che l’anziano piegato superstite rese a un documentario televisivo polacco nel 2005, The Portraitist, e in un libro-intervista britannico, come tutte le docu-fiction anche Il fotografo di Auschwitz accetta il rischio di mettere il lettore nell’incertezza fra testimonianze dirette e ipotesi narrative, sentimenti del protagonista e completamenti degli autori. Che spiegano: «Era l’unico modo per entrare nei silenzi di Brasse, e renderli eloquenti».
Internato nel 1941 col numero 3444, Brasse è un privilegiato, e ne è consapevole. Il lavoro ufficiale gli garantisce la vita, mentre quello ufficioso (ritratti per gli ufficiali) gli procura qualche agio di contrabbando, cibo, sigarette. Per cinque anni si vede sfilare davanti i volti e i corpi dei morituri. Sa cosa succede fuori dalla baracca-studio del blocco 26 da cui evita più che può di uscire. Se non lo sapesse, glielo direbbero i volti che il suo obiettivo cattura: ebrei emaciati, prigionieri russi, zingari pesti, ragazzine quasi bambine. Ravvivati dalla narrazione, gli episodi della memoria di Brasse prendono vita. Neppure gli autori però osano prestare al loro protagonista romanzato la coscienza che le sue fotografie, e quindi il suo stesso lavoro, non sono i documenti burocratici di uno sterminio, ma ne sono uno strumento letale. Quelle foto servono per attestare, scrive Clément Chéroux, studioso della fotografia nei lager, «la conformità del detenuto agli standard fisici e sociali» del reietto, dai quali dipende la sua eliminabilità. Dunque, anche lo scatto della fotocamera di Brasse uccide. E lui stesso è un perpetratore di olocausto. Perché quei corpi, ricorda, «una volta fotografati, diventavano immediatamente inutili».
Evitare certi pensieri è la condizione della sopravvivenza psichica nella distopia concentrazionaria. Qualche ritocco, di nascosto, e Brasse ingentilisce i tratti di un condannato: piccolo regalo clandestino di dignità «perché gli esploratori del futuro si rendessero conto di avere di fronte uomini e non bestie». Ma ogni difesa crolla quando gli viene chiesto di documentare i “pazienti” del dottor Mengele (ecco quattro ragazzine scheletriche, nude, derubate anche dal pudore per i corpicini che non hanno più nulla da mostrare), e poi gli esiti sanguinolenti dei suoi esperimenti, spesso praticati davanti all’obiettivo per non perdere l’atroce attimo fuggente. Qui forse matura la sorda, istintiva decisione di ribellarsi in qualche modo: alla vigilia della caduta degli dèi con la svastica, Brasse inizia a collaborare con la resistenza polacca del campo, e all’ultimo, nel fuggi-fuggi letale, con l’Armata rossa alle porte, decide a rischio della vita di disobbedire all’ordine di bruciare tutto l’archivio. Abbandona decine di migliaia di immagini nella baracca dove i russi le troveranno. Confusamente, Brasse ha intuito che quelle foto immonde, se non potranno mai riscattarsi dalla loro colpa, possono almeno essere costrette a rendere la loro infame testimonianza alla storia. Quanto a lui, se la vedrà per tutta la sua lunga vita (è morto un anno fa) con la sua coscienza di sopravvissuto.
Oggi molte di quelle immagini (non quelle più intollerabili, tuttora segrete) sono visibili allo Yad Vashem e al museo di Auschwitz. I volti delle ragazzine, nel libro, ci guardano ancora vivi. L’anagrafe degli aguzzini ci trasmette i loro nomi. Czeslawa ha il labbro spaccato da un ceffone della kapò. Rozalia ha un pettinino nei capelli biondi. Krystyna, quattordicenne, guarda qualcosa fuori dalla cornice, e sembra sorridere.