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 2013  ottobre 26 Sabato calendario

L’ITALIA DELLE CORPORAZIONI IN GUERRA CONTRO IL NUOVO


Ho vissuto alcuni anni negli Stati Uniti per motivi di studio e all’inizio di quella permanenza rimasi colpito dal dinamismo di quel Paese e da come si abbracciava volentieri il nuovo e il cambiamento. Tornato in Italia non ho potuto che osservare quanto noi si sia diffidenti del nuovo e del cambiamento e mi sono allora ricordato di una pubblicità televisiva americana che chiamava il nostro Paese “classical Italy”: diceva il vero. Le chiedo quindi come mai si sia così restii a cambiare e si preferisca andare avanti secondo il solito trantran pur criticandolo in continuazione.
Roberto Macchia
Livorno

Caro Macchia,
Uno slogan pubblicitario serve a vendere un prodotto, non a descrivere credibilmente un Paese. L’aggettivo che maggiormente si adatta all’Italia non è «classica», ma «corporativa». La penisola è un grande mosaico di albi professionali, sindacati, ordini, gruppi di pressione, famiglie politiche e, purtroppo, anche famiglie mafiose. Parliamo molto e spesso di «poteri forti». Ma dovremmo parlare piuttosto degli infiniti «poteri deboli» che non possono governare il Paese, ma sono perfettamente in grado d’impedire che venga governato. Il groviglio e la difficile decrittazione delle nostre leggi sono anche il risultato delle numerose distinzioni ed eccezioni con cui un disegno legislativo viene appesantito durante il suo percorso parlamentare.
La colpa ricade in buona parte sul nostro sistema politico-istituzionale. In Italia si fanno leggi per materie che in altri Paesi verrebbero regolate con una ordinanza. In Italia l’approvazione di una Camera non basta: occorre anche l’approvazione dell’altra. In Italia il presidente del Consiglio non governa, ma «coordina»: un verbo che autorizza i ministri a parlare di tutto e a prendere iniziative scoordinate.
La somma di queste cattive abitudini offre alle corporazioni italiane infinite occasioni per rallentare, snaturare e spesso affondare qualsiasi norma si proponga di eliminare gli sbarramenti che impediscono la modernizzazione del Paese. Il «nuovo» non piace agli italiani perché ha quasi sempre l’effetto di eliminare i cosiddetti «diritti acquisiti», una espressione colta e intimidente dietro la quale si nascondono più interessi che diritti.
Il nostro cattivo sistema costituzionale non basterebbe ad ostacolare la modernizzazione, tuttavia, se non corrispondesse a una cultura molto diffusa nel Paese e non fosse anche il frutto del suo particolare tragitto storico. Verso la metà degli anni Settanta ebbi una lunga conversazione a Parigi, dove lavoravo, con Aldo Moro, allora ministro degli Esteri. Gli descrissi la rapidità con cui Georges Pompidou, successore del generale De Gaulle alla presidenza della V Repubblica, aveva dato una risposta ai moti del ’68 con una coraggiosa e intelligente politica modernizzatrice: grandi opere pubbliche, coraggiose trasformazioni urbanistiche, alta velocità, centrali nucleari, Airbus, il tunnel sotto la Manica. Moro mi ascoltò con cortese pazienza e mi dette una elegante risposta che, tradotta in italiano corrente, significava: “gli italiani sono fatti così”. A me sembrò tuttavia che il modo italiano di fare politica gli fosse congeniale e che Moro credesse soprattutto nelle formule in cui dava il meglio di sé: i lunghi negoziati, i tortuosi compromessi, la finezza delle contrapposizioni dialettiche. Durante un pranzo al Quirinale, Kissinger se ne accorse immediatamente e dette un giudizio ingeneroso ma azzeccato sulla classe politica italiana.