Sergio Rizzo, Corriere della Sera 26/10/2013, 26 ottobre 2013
LO 007 CHE SALVÒ L’ARTE DAI NAZISTI
«Rodolfo Siviero riposa nella Cappella della Santissima Annunziata accanto a Benvenuto Cellini, Jacopo Sansovino e Pontorno, dietro una lapide senza iscrizione. Dopo la sua morte, il governo ha concesso la pensione di anzianità che mai aveva accordato». Nell’epitaffio conclusivo del saggio scritto da Francesca Bottari, che Castelvecchi ha mandato ieri in libreria, è condensata la storia di uno dei personaggi verso cui la cultura italiana ha un debito tanto incalcolabile quanto singolare. Perché se sono tornate in Italia 3 mila opere d’arte trafugate dai nazisti, ma anche da mercanti senza scrupoli dopo la guerra, lo si deve a lui. Recita il titolo del libro: Rodolfo Siviero. Avventure e recuperi del più grande agente segreto dell’arte . E non è un eufemismo.
Siviero è infatti un agente del Servizio informazioni militari fascista. È appassionato d’arte e quando comincia la grande razzia nazista la sua vita cambia. Da allora, per più di quarant’anni, dedicherà la sua esistenza — prima come agente segreto dello Stato fascista, poi come uomo della Resistenza, quindi come funzionario della Repubblica — a inseguire e riportare in patria i nostri tesori rubati. Come il Discobolo Lancellotti, preziosissima copia romana della celebre statua greca di Mirone, rientrata in Italia nel novembre 1948 da Monaco di Baviera.
È la prima preda tedesca, gentilmente concessa dal governo italiano al Führer nel 1938, l’anno che con le leggi razziali segna la definitiva e incondizionata sottomissione del fascismo alla Germania nazista. Una consegna pretesa da Hitler in persona, dopo il suo viaggio a Firenze del 1937. Il Consiglio superiore delle Scienze e delle Arti si oppone, ma di fronte al sì di Mussolini non c’è nulla da fare. Nemmeno il ministro dell’Educazione, Giuseppe Bottai, riesce a impedirlo e vani sono anche i suoi tentativi di frenare in seguito, una volta rotta la diga, l’emorragia di opere d’arte verso il Terzo Reich. È Hermann Göring a pianificare l’assalto in grande stile alle opere d’arte italiane, e l’allarme che Bottai lancia nel marzo con una circolare in cui avverte che «è pervenuta voce a questo ministero che dai musei e dalle pinacoteche capolavori emigrerebbero in Germania», cade letteralmente nel vuoto. Anche perché di lì a poco, dopo l’8 settembre 1943, l’emigrazione si trasformerà in saccheggio.
Siviero è già nella Resistenza, e con l’aiuto di infiltrati antifascisti nei servizi segreti organizza insieme ai partigiani e agli Alleati l’azione di contrasto alle depredazioni naziste, affidate al Kunstschutz : formalmente un organismo creato dagli occupanti per la salvaguardia delle opere d’arte italiane; nella realtà, una struttura dedita alla spoliazione scientifica. Il segnale dell’attacco è dei più terribili: l’incendio dell’archivio storico di Napoli il 30 settembre 1943, 22 giorni dopo la firma dell’armistizio. Poi i tedeschi fanno saltare il Museo della Torre di Minturno, distruggendo una delle raccolte archeologiche più importanti d’Italia.
I memoriali di Siviero e i documenti inediti che Francesca Bottari ha consultato ci rivelano particolari sconcertanti della rappresaglia, mentre si cerca di mettere al riparo quante più opere possibili al Vaticano e nei nascondigli di fortuna. Nascondigli che vengono spesso scoperti, e si assiste alle carovane di camion cariche di casse che dopo il saccheggio partono in direzione del Brennero. Il 4 ottobre 1943 viene letteralmente svuotata per ordine di Göring l’abbazia di Montecassino. Alcune casse con le opere più preziose prendono la via della residenza estiva del feldmaresciallo, che «diventa la sede di una immensa raccolta di opere d’arte trafugate nei Paesi sottomessi, ai tempi la più ricca del mondo», scrive Francesca Bottari.
La descrizione degli oltraggi che subiscono le opere d’arte trafugate dai nazisti è raccapricciante. Nell’agosto del 1944 i soldati tedeschi incaricati di trasportare in Germania 262 dipinti prelevati dagli Uffizi di Firenze appena liberata, organizzano un festino in strada, a Marano sul Panaro, «danzando intorno alla Venere del Tiziano sottratta da una cassa ed esposta al calore e alla luce violenta delle fiaccole». Quando la situazione precipita, una parte del bottino finisce nella miniera di sale di Altaussee, in Austria. Dove Siviero lo ritrova, nel 1947. Racconta il libro: «Da quella cava di sale, coperti di fango, alterati, mutilati e marciti pian piano escono dalle casse rotte kuroi e ninfe, dèi e vasi, come morti che tornano in vita. Ecco la sua amata Danae, con la Lavinia di Tiziano, entrambe coperte di muffe; l’Apollo di Pompei che Hitler teneva in casa… Escono la Madonna di Bruges di Michelangelo, l’enorme altare con l’Adorazione del mistico agnello di Jan Van Eyck, gli altri capolavori di Capodimonte. E poi gli ori del Museo archeologico di Napoli, la testa dell’Ermes di Lisippo, che Siviero dice sbriciolata in 62 frammenti, un cervo di Ercolano senza zampe…».
L’inseguimento di Siviero ai tesori italiani scomparsi non si fermerà più, fra difficoltà materiali e contrasti con la burocrazia. E il suo campo d’azione si allargherà anche oltre il recinto dei saccheggi bellici. Nel 1968 riesce a recuperare, con un’azione spettacolare culminata in un conflitto a fuoco, l’Efebo di Selinunte, un bronzo preziosissimo «rubato dalla mafia nel 1962 al municipio di Castelvetrano dove veniva usato come portacappello del sindaco».
Poco prima della sua morte, l’ex 007 compila la lista, completa di indicazioni utili al recupero, delle opere ancora ricercate: circa 2.500. È il suo ultimo regalo.